A DINO. PER DIMENTICARE IL MENO POSSIBILE, E PER PERPETUARE LA GIOIA.

         
Sono una traduttrice letteraria. Dall’inglese e dall’americano (che non sono esattamente la stessa lingua). Trent'anni suonati trascorsi senza annoiarmi, 85-55-85cm per 1,75m. Occhi e capelli scuri, look leggermente aggressivo. Ho messo una foto qui accanto, tanto per rendere l'idea. Mi piacciono la buona tavola, la musica classica e il cinema. Non potrei vivere senza il cashmere e il pesce crudo, mentre vivo benissimo senza sesso. Odio il teatro e la tv e soprattutto la gente grezza. Conduco una vita regolarissima, lavorando a casa circa sei ore al giorno, e leggendo il resto del tempo (sì, leggo molto). La sera esco spesso a cena con qualche corteggiatore così non pago, col risultato che quasi metà della mia voce spesa è a carico altrui, e il martedì e il giovedì vado in palestra. Guido una Volvo V70 nera e ho una passione insana per la Formula 1. Il mio idolo era Senna, che tento ogni giorno di emulare per le strade di Milano. Ho viaggiato molto, conosco un sacco di gente e tutti mi hanno insegnato qualcosa. Amici ne ho pochissimi, ma fidati. Amiche, mai neanche una, benché molte donne siano convinte di essere amiche mie. Vivo in un appartamentino in affitto al terzo piano di un palazzo al centro di Milano con quattro gatti (nel senso che abito insieme a dei gatti, e sono proprio quattro). Sono un tipo solitario, eppure ho molto successo nella vita sociale; tutti mi vogliono, tutti mi cercano, tutti mi chiedono consigli. 
Ma allora, direte voi, com’è che invece di fare un lavoro alienante non sei, che so, una conduttrice televisiva, una parlamentare, un’autrice di best sellers, una sceneggiatrice? 
Perché, cari amici, passare per una persona speciale è una delle poche cose che mi riescono bene. 

Inizio aprile 1999
 
Otto e mezzo del mattino. Suona il telefono. Mi giro dall'altra parte, il sole mi colpisce in pieno (non chiudo mai le persiane, lo trovo uno spreco di energie inutile visto che il mattino dopo dovrei riaprirle). Il telefono insiste. Tenderei a ignorarlo, ma sono curiosa di sapere chi può essere tanto imbecille da chiamare a quest'ora. 
“Sì!” rispondo scocciatissima, praticamente urlando. Vorrei vedere gli altri, se gl’interrompessero il sonno all’alba. 
“Sono Dino De Laurentiis.” Dovrei mettere giù la cornetta come si fa normalmente quando si ricevono scherzi telefonici, ma sono curiosa di sapere chi è tanto cretino da farmi uno scherzo telefonico a quest’ora. Sarà mio cugino. “Parlo con Elisabetta?”
“Sì… Elisabetta d’Inghilterra,” dico. Una risatina. “Dalla voce la facevo più giovane. Senta, Elisabetta, ho bisogno di tradurre il manoscritto di Thomas Harris, Hannibal, il seguito del Silenzio degli innocenti. Lei me lo potrebbe fare questo lavoro in un paio di settimane?”
Ma chi cavolo è ‘sto pirla? La voce non la conosco. Bella però. Calda, profonda. Una voce da attore drammatico. Decido di stare al gioco, tanto ormai sono sveglia. 
“Due settimane? Quante cartelle sono?” chiedo con tono professionale, posando lo sguardo sulla copia d’autore del Raggio di sole di van Ruysdael, un regalo del mio ex fidanzato appeso alla parete di fronte (il quadro, intendo).
“Ottocento sul dattiloscritto.” 
“Ottocento… certo, come no. Me lo mandi pure che comincio subito. L’indirizzo ce l’ha?”
“Sì, me l’ha dato la mia segretaria Elvira. Le lascio il suo numero, se lo segni, nel caso avesse bisogno di qualcosa.” Mi spara undici cifre tutte diverse (okay, tutte tranne una) che scrivo sulla quarta di copertina di American Psycho, l’unica superficie cartacea sul mio comodino (adoro Bret Easton Ellis). Dopo di che mi alzo. Inutile restare a letto, questo scherzo idiota mi ha fatto passare il sonno e non ho neanche capito chi era. I miei gatti sono dietro la porta, come tutte le mattine. Li bacio e vado in cucina a farmi un caffè, col piccolo corteo felino dietro.
Ma pensa ‘sto stronzo. Chiaramente non è mio cugino, ma è uno che mi conosce, per forza, uno che sa che tra tutte le persone al mondo che stanno aspettando da dodici anni l’uscita del prossimo romanzo di Harris, io sono tra quelle in prima fila. Uno che mi conosce molto bene. Ma l’accento era sul meridionale. Io non conosco nessuno in meridione, ci mancherebbe altro.
Sono curiosa però, quindi dopo aver nutrito i miei quattro gatti vado in soggiorno, mi sdraio sul divano e compongo le undici cifre sul mio Panasonic portatile (non compratelo, ha le batterie che durano pochissimo). Risponde una voce femminile. Accento romano. La cosa si fa veramente sospetta. Scherzo pesante. Qualcuno che mi vuole male? Ho subìto molestie dalla moglie del mio ex ex fidanzato per un anno. Chiamate fantasma, lettere minatorie, diffide, un incubo. Sarà mica ancora lei!?!
“Elvira? Elisabetta De Medio.”
“Elisabetta, buongiorno! Mi ha chiamato proprio adesso il dottore.” Il dottore? Che dottore? Come, sanno pure che sono ipocondriaca? “Le sto mandando il pacco per FedEx, lo riceverà domani.”
“Senta, abbia pazienza ma…”
“Guardi, l’avrei chiamata oggi per metterci d’accordo sui termini del pagamento.”
“Il pagamento di che? Mi perdoni ma io non ci sto capendo niente. Lei chi è?”
“Io sono la segretaria del dottor De Laurentiis.” Ah, quindi ‘dottore’ era un titolo onorifico. 
“E scusi, cos’è che dovrei tradurre?”
“Hannibal, il nuovo romanzo di Thomas Harris.”
Sì, certo. C’è tutta la Mondadori in fibrillazione nell’attesa di questo romanzo, e lo mandano proprio a me. Ma non scherziamo. Non scherziamo, per favore.
“Mi permetta una curiosità, il dottore da chi ha avuto il mio numero?”
“Gliel’ho dato io!”
“E lei da chi l’ha avuto?”
“Dalla dottoressa Rossetti qui a Roma.”
“E chi è la…”
“La dottoressa Rossetti è un’amica mia.” Cos’è, una caccia al tesoro? “Ma perché, non le hanno detto niente quelli di Milano?” Quelli di Milano chi?!? 
“No, io non so niente di questa storia,” rispondo cercando di non perdere la pazienza, dato che comincia ad affiorarmi il dubbio che non si tratti di uno scherzo. 
“Ah, ho capito adesso!” epifanica. Con gentilezza, Elvira mi spiega che Dino De Laurentiis, giunto in Italia da Los Angeles un paio di giorni fa, le ha chiesto di trovargli un traduttore bravo, fidato e soprattutto velocissimo per Hannibal, perché vuole leggerlo in italiano e non ha tempo di aspettare l’uscita in libreria. Non sapendo dove cercare, lei ha chiesto a questa Rossetti che ha molte conoscenze in varie case editrici romane, ma la sua amica non ha trovato nessuno (e ci credo, lo cerca a Roma, e come se non bastasse lo vuole pure ‘fidato’!!) e ha passato la richiesta a Feltrinelli che, non avendo un traduttore con quei requisiti nella capitale, si è rivolta alla sede centrale di Milano. Il cui ufficio esteri, tramite la dottoressa Realini, ha fatto il mio nome. Chiudo e chiamo Nicoletta Realini. Rientra domani.
Dovendo attendere per scoprire se si tratta di uno scherzo oppure no, mi metto al lavoro come ogni giorno. Non senza fare un salto da Biffi in piazzale Baracca a far colazione, ovviamente, ma questo potrebbe essere un particolare di minore interesse.

***

Sono ferma al semaforo, col piede ansioso sul pedale del gas per partire prima di questo bradipo di fianco con un’Audi bianca che m’ha fatto da tappo sulla preferenziale facendomi perdere dieci minuti (per andare a tre all’ora, perché non si fa la corsia normale invece di quella riservata ai taxi?). Proprio quando scatta il verde, suona il cellulare.
Perdo la concentrazione, l’Audi passa prima. Accidenti! Rispondo seccatissima: “Pronto!”
“Elisabetta, sono Dino De Laurentiis.” Ancora?
“Sì, dica. Veloce però che sono in mezzo al traffico.” Penso per un istante ‘E se fosse davvero Dino De Laurentiis? Che figura di merda starei facendo?’ ma scaccio subito il pensiero. Dino De Laurentiis non chiamerebbe personalmente una traduttrice che neanche conosce. 
“Volevo solo dirle che la mia segretaria le sta mandando il manoscritto di Hannibal, lo riceverà domani.”
“Va bene, okay.”
A sessanta all’ora di nuovo. ‘sto imbecille! Perché danno la patente a certi incapaci? Questo viene dalla campagna veneta, sicuro. Non potrebbe starsene al suo paesello a guidare il suo maledetto taxi?
“Io riparto domani per Los Angeles, ci sentiamo tra un paio di giorni.”
“Ma guarda ‘sto stronzo!”
“Prego?”
“No, no, non dicevo a lei, sto guidando. Ci sentiamo tra un paio di giorni, d’accordo.”
“Bene, arrivederci.”
Un altro semaforo. Spengo il cellulare. Stavolta il tassista veneto non mi sfugge.
 
Il giorno seguente
 
Mattino. Suona il citofono. Alle otto! È una persecuzione! Mi trascino verso l’ingresso. I miei gatti mi guardano dal divano con gli occhietti semichiusi e l’aria assonnata e sorpresa. Penseranno che mi sia partito il cervello, in piedi a quest’ora.
Sulla soglia, un omino FedEx alto un metro e cinquanta mi mette in mano un pacco piuttosto pesante proveniente dalla DINO DE LAURENTIIS COMPANY e se ne va. Chiudo la porta con un calcio (mi servono due mani per tenere il pacco) e vado in studio ad aprirlo. Un dattiloscritto. Hannibal di Thomas Harris. Oh – my – God! Inclusa, una lettera d’accompagnamento in cui si specifica che qualunque info riguardante il contenuto del pacco deve rimanere confidenziale. E ci credo. Un romanzo che tutto il mondo sta aspettando da dodici anni! I maggiori editori globali se lo sono combattuto a colpi di cifre astronomiche e non vedono l’ora di averlo per metterlo sul mercato. E ce l’ho in mano prima io. Sarò la prima, in Italia, a leggere queste pagine. Un sogno divenuto realtà, praticamente.
In questo momento tuttavia non riesco a essere felice, perché sto pensando che ho parlato con Dino De Laurentiis, un pezzo di storia del cinema, e ho fatto la figura di una buzzurra. 
Mi siedo sulla poltrona Frau, compagna di tanti momenti di appannamento. Swan, il mio gatto maggiore, si piazza davanti a me seduto sulle zampette posteriori. Sta lì con la sua faccia da gatto, e mi guarda con un’espressione tra il curioso e l’ebete; a volte vorrei che mi capisse, che smettesse per un attimo di essere soltanto un felino e mi chiedesse cosa c’è che non va, per esempio. Ma lui non dà mai alcun segno di partecipazione quando sarebbe il caso, e anzi come presago di una qualche richiesta da parte mia che non vorrebbe soddisfare, di solito gira la coda e si dilegua, fermamente intenzionato a non essere altro che un gatto (uno splendido gatto bianco e grigio, devo dire, e obbiettivamente, non perché sia mio, il gatto più bello del mondo).

 

Agosto 1999
 
Hannibal l’ho tradotto davvero in due settimane, lavorando praticamente ogni giorno 24 ore su 24. Alla fine ero stremata, ma sono state le due settimane lavorative più incredibilmente emozionanti della mia vita (fino a quel momento).
È così che è cominciata. Beh, era difficile credere che Dino De Laurentiis (non fatemi scrivere chi è, cercatelo su Internet se siete così incolti da non saperlo, ma comunque Totò, Fellini, Alberto Sordi, De Sica, Lattuada, Visconti, Guerra e pace, La grande guerra, La Bibbia di John Huston, Lo scopone scientifico, I tre giorni del Condor, King Kong, Flash Gordon, Conan il Barbaro, L’anno del dragone, Velluto blu, vi dicono qualcosa? E non posso andare avanti con gli esempi, ha prodotto centinaia di film!), dicevo era difficile credere che uno dei più grandi produttori di sempre, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1972, mi chiamasse di persona e dall’Italia, vi pare? Un paio di giorni dopo la consegna, il mostro sacro del cinema mi ha telefonato e mi ha detto: “Elisabetta, ha fatto un miracolo, brava. Ottimo lavoro”. Non so se mi spiego. 
Ora sono cinque mesi che lavoro per Dino. Gli traduco tutto, tutto quello che riceve in lingua inglese ma che preferisce leggere in italiano, soggetti per film, trattamenti e sceneggiature, ma anche lettere personali e contratti. Lui è entusiasta di me e io del suo entusiasmo. All’inizio avevo anche raccolto degli articoli di giornale in cui c’erano delle sue foto recenti, per vedere com’è adesso. Una faccia simpatica. Poi a maggio ci siamo incontrati. Lui doveva venire di nuovo a Roma, e io mi sono buttata e gli ho detto: “Se ha cinque minuti liberi, vengo a trovarla, così ci conosciamo di persona”. Pur non essendo una che si impressiona facilmente, ero emozionata come una bambina quel giorno. Mi sono messa un severo tailleur pantalone grigio di Armani che mi è costato il lavoro di un mese, sandali col tacco alto neri e cluth bag nera, manicure e pedicure perfette con smalto blu ai piedi, niente gioielli. Capelli tagliati all’altezza delle spalle per l’occasione e pettinati lisci. Seria ma carina, devo dire. L’omino dell’hotel Plaza in via Veneto mi ha accompagnata fino al piano a cui si trovava la suite in cui alloggiava Dino. “È quella porta bianca in fondo,” ha detto prima di girare sui tacchi e tornare giù per lo scalone. Ero al principio di un corridoio lungo e largo coperto da una moquette rossa, e dovevo attraversarlo tutto. Coi tacchi! Un’anta della porta bianca si è aperta proprio in quel momento e ne è sbucato un uomo minuto coi capelli corti  bianchi. Era lui. Dino De Laurentiis. Si è guardato tutta la traversata come se stesse assistendo a una sfilata di moda. Quando sono arrivata alla porta ero senza fiato per la fatica (spalle dritte, petto in fuori, non barcollare sui tacchi, non ancheggiare troppo, rilassa il viso, preparati a sorridere, non abbassare lo sguardo, passa la borsetta nell’altra mano e libera la destra per stringere la sua, vorrei vedere voi!). 
“Salve,” sono riuscita a dire, ma senza il sorriso. Pur essendo più basso di me, Dino De Laurentiis incuteva timore. 
“Venga, venga,” ha detto lui richiudendo frettolosamente la porta. “Si accomodi.” Ci siamo seduti lui su un divano barocco di fronte alla tv, io sulla poltrona di pelle di fianco, in un salotto elegante con dei tendaggi molto ricchi. Dino indossava pantaloni neri comodi, scarpette nere da ginnastica con le caviglie sottili scoperte e una maglietta bianca. Nessuna parte del suo corpo abbronzato sembrava avere ottant’anni. 
“Vuole bere qualcosa?” mi ha chiesto. 
“Sto bene così, grazie.” 
“Bene,” ha detto lui come se avessi azzeccato la risposta. 
La tv era accesa sulla partita di calcio (una sua grande passione, ma ancora non lo sapevo). Il Milan e la Lazio si contendevano lo scudetto. 
“Non spererete di vincere il campionato, vero?” ho scherzato, tanto per rompere il ghiaccio. 
“E come no? Vinciamo di sicuro!” ha risposto lui ridendo e allungando i piedi sul tavolino di fronte, accanto a un vassoio con degli avanzi del pranzo e a una pila di giornali e di fax (tra cui alcuni che gli avevo mandato io). “E dagli con quelle gambe, corri!” ha urlato al televisore. 
Non mi ha più rivolto la parola fino alla fine della partita (per fortuna mancavano dieci minuti). Mi sono consolata. Io ero stata un po’ cafona le prime volte che ci eravamo parlati (perché non sapevo che era lui) ma anche lui adesso, per essere la prima volta che mi vedeva, non è che mi stesse proprio riservando un’accoglienza principesca. Voglio dire, ero scesa al sud da Milano per conoscerlo, e lui guardava la partita? Che avessimo qualcosa in comune? Gli volevo bene già prima d’incontrarlo, ma da quel giorno ho cominciato a volergliene ancora di più. (Per chi fosse interessato, la Lazio poi lo scudetto l’ha perso). 
Con Hannibal, è finita che Dino ha comperato i diritti per sedici miliardi di lire e ci sta facendo un film diretto da Ridley Scott e scritto da David Mamet. David Mamet! Proprio lui! Non ci potevo credere quando l’ho scoperto. Dino dice che è un genio. Ho letto il suo ultimo romanzo per lavoro, qualche mese fa (faccio delle letture per Feltrinelli). Bocciato alla grande. Ci ha messo dentro tutto quello che quest’anno non è riuscito a scrivere altrove, col risultato di uno zibaldone di stronzate collegate dal solo fatto che lo scrivente è lui, narcisista border-line con aspirazioni filosofiche e di presunzione metafisica. E poi Mamet non si sopporta più: un suo film, The Winslow Boy, è in questi giorni nelle sale italiane, a breve distanza dal venturo State and Maine e pochi mesi dopo The Spanish Prisoner, uscito in Italia col titolo La formula di David Mamet, così al cinema sullo schermo vedevi La formula di David Mamet, regia di David Mamet, scritto da David Mamet, e avevi più possibilità di tenere a mente il nome, nel caso dopo le 33 commedie, i 21 saggi, le 24 sceneggiature, i 3 romanzi, le 2 raccolte di poesie, i 3 libri per bambini e i 12 testi di canzoni (dati da aggiornare continuamente) ancora non te lo ricordassi. Non stupisce che per la sceneggiatura di Ronin abbia usato uno pseudonimo! Comunque, a parte la mia antipatia per questo immenso talento del cinema, Ridley Scott e David Mamet sono due nomi che noi tutti si legge sul grande schermo, nei titoli di testa. E con cui io ora ho quasi una corrispondenza. Nel senso che loro mandano i fax con le loro proposte per il film a me, io traduco e li mando a Dino. Se ci pensate, tutto quello che Mamet e Scott scrivono passa prima dalle mie mani. Non è emozionante? Ancora di più lo è il fatto che questi personaggi compongano da casa loro il mio numero di telefono, il numero di Elisabetta De Medio di Milano. Insomma, sono una minuscola parte della loro vita adesso, niente di trascendentale, penserete, ma nel caso di Ridley Scott ne vado alquanto fiera, perché per quello che posso capire da quanto scrive è l’uomo più intelligente del pianeta. Neanche lui sopporta Mamet; scrive a Dino dei commenti acidissimi su di lui, e Dino tenta di mediare, riferendo a Mamet la metà di quello che dice (e anche quella metà, parecchio edulcorata). Col risultato che Mamet non ha idea di quello che veramente Scott pensa di lui, e io invece sì! Fantastico! Comunque Mamet non è adatto a scrivere la sceneggiatura di questo film, e non so come faccia Dino a non accorgersene. Io cerco di comunicarglielo sfumando leggermente alcune delle frasi che traduco in modo da far sembrare Mamet ancora più inadeguato di quello che è, ma niente, il dubbio non lo sfiora nemmeno. Il fatto è che non è il suo genere. E sarà anche un genio (le ultime due cose sue mi sono piaciute tantissimo, devo ammettere), ma un genio semianalfabeta! Mi manda dei fax scritti a mano che non si capisce un accidente, ci metto due ore a decifrarli, e ci sono pure un sacco di strafalcioni! Scott invece batte tutto a macchina ordinato e senza un errore, anche se un po’ in piccolo. Ho chiesto a Dino se può dirgli di scrivere più grande perché spesso mi arrivano dei fogli con delle righe nere orizzontali da cui è difficile ricavare un testo. Speriamo glielo dica. Io nel frattempo invento.
Il progetto di Hannibal è una delle cose migliori che mi siano capitate nella vita, dal punto di vista lavorativo intendo. A parte forse certi dattiloscritti di nostri scrittori che mi hanno permesso di produrre alcune delle schede critiche più divertenti della storia dell’editoria. Se non ci credete, leggetele. Le ha lette persino Carlo Feltrinelli, figlio del mitico Giacomo, nipote del mitico Carlo eccetera nonché proprietario e presidente della casa editrice omonima (ma che diavolo, ho bisogno di spiegare chi è Carlo Feltrinelli?). Quando la sua assistente Luciana me l’ha detto, ai tempi, non ho fatto una piega, tant’è che lei mi ha rimproverato “Non sei contenta? Ma ti rendi conto che onore? Carlo Feltrinelli non parla nemmeno col direttore editoriale!” Sì, da un certo punto di vista è un onore, ho pensato. Tuttavia, da una diversa prospettiva, le mie schede sono un vero capolavoro del genere ‘letteratura d’intrattenimento’. Ovvio che una persona colta e intelligente si diverta a leggerle. A lei non ho detto che ho pensato questo, ma qui posso dirlo. 

***

Mi è  venuta un'idea per risolvere un problema che Scott, Mamet e Dino discutono da giorni. Chiamo Alberto e gliela dico. Mezz'ora al telefono, perché gli devo spiegare anche le soluzioni proposte dagli altri. 
“Beh, mi pare un’ottima idea,” dice lui con la solita flemma. 
“Tu dici di provare a proporgliela?”
“Ma certo, devi!”
“Gli telefono e gliela dico a voce o gli mando un fax?”
“Io telefonerei.”
“Sì, giusto. Okay, ciao,” chiudo. Dobbiamo uscire a cena e mi devo ancora vestire. Dino è nella sua villa di Capri adesso, in villeggiatura con la famiglia. Ci sentiamo almeno tre volte al giorno; lavora sempre, anche in vacanza.
Mmh, il citofono. Oh, Alberto arrivasse una volta in ritardo. 
“Due minuti e scendo!” gli dico. Infilo una gonnellina corta di seta e una canotta nera, mando il fax a Dino e in meno di un quarto d’ora sono giù. Alberto è appoggiato con aria pensosa a una delle piante davanti al mio portone. Indossa una Lacoste viola sotto la giacca blu, jeans e mocassini con le calze. 
“Dove andiamo?” chiedo. 
“Non possiamo andare al Verdi? Io sono stufo di giapponesi!”
“Okay, vada per il Verdi. A piedi, immagino. Ma non hai caldo? Ci saranno quaranta gradi!”
“No.”
Alberto Pezzotta è un noto critico cinematografico, nonché un mio caro amico. Siamo così incomparabilmente diversi che andiamo d’accordissimo. Facciamo insieme persino le vacanze. Lui è convinto che questo mio incontro con De Laurentiis sia una grande opportunità. Gli dico del fax mentre saliamo sulla metro. 
“Avresti fatto meglio a telefonare,” commenta lui acido.
Il ristorante è iper-affollato, come al solito. Dieci minuti buoni, prima che ci diano il tavolo. Roba da andarsene di corsa, ma abbiamo fatto almeno duecento metri a piedi, non se ne parla di rimettersi in cammino. Quando finalmente ci sediamo, ordiniamo subito due tagliate. Dopo di che ci perdiamo in chiacchiere, i film visti in questi giorni, le recensioni uscite sui giornali nazionali e milanesi, le nuove mostre da non perdere (abbiamo in comune la passione per la pittura). Appena il cameriere appoggia i piatti sul tavolo, squilla il cellulare. Alberto mi lancia un’occhiataccia tale che se abbassava il tiro mi bruciava la carne. “Potrebbe essere De Laurentiis, non posso tenerlo spento!” lo rimprovero, scandalizzata dal fatto che non gli sembri ovvio. 
“Elisabetta, bella, senti qua.” Dino. (Ora mi dà del tu). Visto? Era lui. “Quell’idea che mi hai mandato… traducila in inglese e mandala a Ridley Scott e a David Mamet, e scrivici mi raccomando sul fax ‘a Ridley Scott e a David Mamet’, così lo sanno che l’hai mandato a tutti e due, hai capito?”
È un momento di gioia immensa. Vi rendete conto? Dino De Laurentiis che chiede a me di dare un suggerimento a Ridley Scott e a David Mamet! (Va beh, Mamet si può capire, ma Ridley Scott!!)
“Sì dottore, domattina la prima cosa che faccio…”
“No, no, domattina da loro è già finita la giornata e se ne riparla dopodomani, lo devi fare adesso, subito!”
“Va bene dottore, lo faccio immediatamente.”
“Sei un angelo. Okay, ciao.” E chiude. Non aspetta mai che lo risaluti.
“Alberto, scusa ma io…”
“Sì sì capisco,” sospira lui rassegnato. “Beata te. Dev’essere bello lavorare con tanto entusiasmo. Mangiamoci almeno metà di ‘sta roba mentre aspettiamo che ci preparino il conto.”
“Okay. Cameriere! Ehi, scusi…!” Sono sordi i camerieri del Verdi. Pazzesco. Ti devi alzare in piedi sventolando il tovagliolo per attirare la loro attenzione. Ancora un po’ mi toccava salire sulla sedia per chiedergli il conto.
Di nuovo a casa, davanti al computer. Che vita. Lavorare per Dino è fantastico ma anche molto, molto faticoso. Quest’estate mi sono saltata tutte le vacanze, a parte una settimana in Maremma con Alberto e venti giorni a Londra. Non sono abituata a sgobbare così tanto. Sarà un mese che non mi faccio una giornata di shopping. Insomma, da un certo punto di vista, è un inferno. E Dino è l’uomo più impaziente del mondo. Mi fa telefonate terroristiche del tipo: ‘Elisabetta, ho qui dieci pagine molto urgenti. Tra quanto me le mandi?’ ‘Gliele faccio immediatamente dottore.’ ‘Sì, ma quanto ci metti?’ E che cavolo! A parte che non lo so, perché dipende sempre dal contenuto, ma in ogni caso qualunque risposta dia, lui brontola ‘No, no, e come faccio io? Lasciamo perdere, me lo leggo in inglese,’ e mi costringe a dimezzare il tempo. Ovviamente ora mi sono fatta furba e gli dico che ci metto il doppio. Però è comunque stressante. 
E un ulteriore stress è questa macchina per i fax che mi sono comprata, accidenti a me e al giorno in cui mi è venuto in mente di cambiare il mio vecchio fax a carta chimica. Quando l’ho vista tutta bella luccicante in vetrina ho pensato che dovevo averla, specie adesso che mi arrivano i fax di Ridley Scott. E così eccola qui nel mio studio. Bella è bella. Si capisse anche come funziona… 
 
La chiamata
 
Lunedì pomeriggio. Per farmi perdonare da mio cugino dei venti minuti di stazionamento trascorsi davanti alla vetrina di un concessionario a guardare la nuova Lotus, lo invito ad accompagnarmi a fare shopping, così può divertirsi a vedermi provare i vestiti. Entriamo all’Altra Moda in San Babila, scendiamo le scale. Le commesse sorridono invitanti. Accenno anch’io un vago sorriso e vado dritta al reparto jeans. Scelgo un paio di pantaloni neri ed entro in camerino a provarli. Quando esco per mostrarli a mio cugino, lui alza gli occhi al cielo. 
“Ne hai già dieci di pantaloni così,” osserva placido dalla poltrona di pelle su cui si è seduto.
“Sì ma questi sono più larghi in fondo, non ne ho neri larghi in fondo.” 
Lui fa spallucce lasciando intendere che non ha altro da dire. Mi guardo allo specchio. In effetti questa linea non convince neanche me. Chiamo la commessa e le chiedo se me li può stringere un po’ in fondo. Lei risponde “Certamente” e va a prendere gli spilli. Mio cugino intanto sta guardando il soffitto con la testa appoggiata allo schienale della poltrona. Sembra Santa Teresa in estasi.
Appena la commessa torna e si abbassa per prendere le misure, mi suona il cellulare. Che palle, proprio adesso!
“Sì!” rispondo seccata. La commessa alza il viso verso di me e mi chiede se deve fermarsi. Le faccio cenno di continuare. 
“Elisabetta senti ho una domanda da farti. Che c’hai, stai guidando?” 
Dino non si presenta più quando mi chiama. Non ne ha bisogno perché sarebbe impossibile non riconoscerlo. Ha una voce meravigliosa, unica. Non sexy, ma potente, rassicurante. Se non l’avete mai sentita, rimediate; cercate un filmato qualsiasi su YouTube e ascoltatela. Se non lo farete, vi perderete qualcosa.
“No, no, non sto guidando. Dica dottore.” 
“Tu ci verresti a Los Angeles con me?”
Che domanda. Passo la vita chiusa in casa davanti a un computer e un leggendario produttore cinematografico mi chiede se vado a Los Angeles con lui. Voi cosa rispondereste?
Io rispondo: “Quando si parte?”
“Domenica col volo Alitalia delle 10.25 da Malpensa. Ci vediamo in aeroporto.” E chiude senza salutare.
Oggi è martedì. Ho quattro giorni per preparare quello che serve. 
 
***
 
Il primo giorno l’ho passato al telefono salutando gli amici e i redattori delle case editrici per cui lavoro. Luciana, l’assistente di Carlo Feltrinelli, mi ha invitata a pranzo. Sto andando da lei in sede adesso, così salgo a salutare anche le ragazze. Per la prima volta da quando lavoro per Feltrinelli mi sono vestita in modo decente. Un abitino\sottoveste di quelli che vanno adesso, corto e un po’ da zoccola devo dire. Non mi sono mai azzardata a presentarmi così dove lavoro, ma adesso chi se ne frega, tanto sto per partire. 
Una vita per trovare un parcheggio in centro. Perché diavolo la gente non prende i mezzi, devo ancora capirlo. Lascio finalmente l’auto all’altezza del numero 4 di via Andegari e percorro di corsa il pezzo di marciapiede fino al 6. Il custode è in piedi davanti al portone aperto, in cima all’ultimo gradino. 
“Salve!” cinguetto. Lui abbassa la testa, concedendomi la visione frontale dei suoi baffi flaubertiani. 
“Sempre in ritardo, eh?” dice, come tutte le volte che mi vede. Mi chiedo se sia lui a mancare di fantasia, o io. Salgo i gradini a due a due, chiamo l’ascensore, e nell’attesa mi sistemo il push-up. Le ragazze mi hanno sempre vista castigata in jeans e maglietta, voglio proprio sentire cosa dicono. La cabina arriva al piano terra con un ding. Entro e premo il 4. Un attimo prima che la porta si chiuda completamente, una mano si infila nella fessura e la fa riaprire. Entra un tizio alto, belloccio, ben vestito, viso liscio, labbra morbide. Tiro leggermente indietro le spalle e faccio un respiro profondo.
“Scusa, ma questo ascensore è così lento…” dice lui. 
“Prego, ci mancherebbe. Che piano?” Con sicurezza, come se fossi la proprietaria dello stabile. 
Lui guarda il pulsante illuminato. “Quarto anch’io.” Mi chiedo chi diavolo sia. Non l’ho mai visto. Se l’avessi visto me lo ricorderei. Sarà qui per un colloquio di lavoro.
“Devi vedere qualcuno?” mi chiede.
“Sì, la dottoressa Pasqua, la conosci?”
Lui sorride. “Sì.”
“Ah.” Sono veramente stupita. Come fa a conoscere l’assistente personale di Carlo Feltrinelli? Io ci ho messo due anni prima di arrivare a lei. 
“E tu da chi vai?” chiedo.
“Da nessuno, io lavoro qui.” Pure. Com’è che non l’ho mai visto? Sarà mica l’amministratore delegato, quello per cui traduco quei pallosissimi contratti… noooo, troppo giovane.
“Dai, davvero? In che ufficio sei? Di cosa ti occupi?”
Lui sorride di nuovo, con malizia stavolta:
“Io sono Carlo Feltrinelli.”
?!?!! 
Porca miseria. Perché cazzo nessuno mi ha mai detto che Carlo Feltrinelli è un figo spaziale? Va bene che sono asessuata, ma ci sono dei limiti. 
“Ah.” Ineguagliabile nel mantenere il controllo. “Ma non avevi la barba?”
“No.” 
Mi guardo intorno, fingendomi interessata ai pulsanti dell’ascensore. 
“Ma tu lavori per noi?” domanda. 
“Sì, da quattro anni.” 
“Come ti chiami? Possibile che non ci siamo mai incrociati?”
“Elisabetta De Medio.”
“La De Medio! Quella che scrive tutte quelle cattiverie sui nostri letterati! Sei tu?” dice fissando incredulo la mia scollatura, come se una con queste tette non potesse mettere insieme frasi di senso compiuto. “Ah, voglio sapere di più di te, chiederò a Luciana. Sei una mia collaboratrice e non ci siamo mai presentati, assurdo no?” aggiunge.
Ha ragione, l’ascensore è veramente lentissimo. Finalmente la porta si apre al quarto piano. 
“Okay. Piacere di averti conosciuto,” dico. Spero si renda conto che avendo cominciato a dargli del tu non posso tornare indietro a dargli del lei solo perché è il padrone dell’impero editoriale per cui lavoro. 
Lui sorride e mi fa segno con la mano di precederlo.
Entriamo insieme negli uffici, io e Carlo Feltrinelli. Peccato che non ci sia nessuno a fare da testimone allo storico evento. 
“A presto allora,” dice CF avviandosi verso il corridoio e incrociando Luciana che viene in direzione opposta. È tutta vestita di nero come al solito, capelli rossi raccolti e occhiali scuri. 
“Non vi vedrete molto presto perché Elisabetta sta partendo per Los Angeles,” dice al suo capo. Lui si ferma di botto e si gira verso di me, sorpreso.
“Davvero?”
“Sì, vado a lavorare con Dino De Laurentiis.”
“De Laurentiis? Stiamo facendo la sua biografia, la sta scrivendo… chi è che la sta scrivendo, Luciana?”
“Tullio Kezich,” rispondo io. “Lo so Sono stata io a insistere perché la facesse con voi.”
“Be’, grazie,” fa lui dopo un attimo di esitazione, sempre sorridendo. Luciana mi fulmina con lo sguardo e scuote la testa.
Okay, potevo evitare, ma è la pura verità. Dino voleva farla con Mondadori e gliel’ho praticamente impedito perché quando si è trattato di mettere Hannibal sul mercato non hanno voluto la mia traduzione (che era già fatta) dicendo che ormai l’avevano affidata a un loro traduttore. Al che  ho mostrato a Dino il libro pubblicato e abbiamo confrontato una pagina a caso con la mia versione: la mia era di gran lunga superiore. Gli ho detto: “Le pare una casa editrice seria, questa?” Si è convinto subito. 
Ora, non dico che Carlo Feltrinelli debba ringraziarmi, per carità, ma non ci trovo nulla di male a fargli sapere che mi batto per l’editore che mi ha sfamato fino a ieri. 

Due giorni dopo

Il LAX. Finalmente a terra. Dopo dodici sterminate ore di volo. Seguo la corrente di quelli che vanno a recuperare i bagagli. Al custom, una cicciona in divisa si sta sbracciando per indicare alla gente dove mettersi in fila. Quando mi avvicino, mi urla di accodarmi alla fila più lunga. Faccio per sceglierne un’altra ma lei urla ancora più forte, ‘No, no! Over there, over there!’ Okay, okay. Scambio un’occhiata perplessa con alcuni compagni di volo ed eseguo senza fiatare. In fila per uno! Okay, per uno. Mi sembra stupido visto che così la coda si allunga e si occupa tutta la sala lasciando un sacco di spazio inutilizzato in mezzo e la gente ammassata nell’atrio che non riesce a entrare, ma non discuto, ci mancherebbe. Ognuno a casa sua fa come gli pare.
Davanti a me ci sono dei giapponesi. Cinque minuti d’interrogatorio ognuno. Finalmente raggiungo la postazione finale. Consegno con orgoglio il foglietto verde compilato in aereo dove dichiaro di non aver ucciso nessuno, di non spacciare droga, di non essere una terrorista, di non essere mai stata in galera e di non aver neanche usufruito dell’immunità parlamentare per non andarci. Il tizio, camicia bianca con mostrine nere, mi guarda con il sopracciglio alzato. Cosa ci faccio negli Stati Uniti? Dove abito? Indirizzo e numero di telefono. Biglietto aereo, per favore. Poi controlla sul computer… speriamo che non risultino le tredici multe non pagate che ho preso dieci anni fa. No. Bene. Mi cuce insieme tutte le pagine del passaporto (cafone!) e mi riconsegna il documento con l’aria di uno che ti sta facendo una grossa concessione. Roba da matti. Giusto perché sono stanca e non ho voglia di mettermi a discutere.
Al carosello adesso. Le valigie sono a terra, qualcuno le ha già scaricate dal nastro trasportatore. Non fosse per l’inutile ora al custom, l’impressione sarebbe di una certa efficienza. Controllo valigie prima dell’uscita. Mi aprono solo il beauty case, per fortuna, e mentre faticano per rimettere tutta la roba dentro guardandosi tra loro con l’aria di chiedersi come facesse prima a starci, io me ne sto lì ad osservare la scena a braccia conserte, così imparano. 
Esco dal terminal 3, che ha anche un nome proprio, Tom Bradley, un ex sindaco di Los Angeles, e vedo un cartello con il mio nome scritto sopra (sbagliato, ovviamente). Lo tiene in mano un uomo di mezz’età, nerovestito, occhiali scuri. Mi saluta gentile, prende il carrello con le mie valigie e lo conduce verso una limousine nera parcheggiata lì vicino. Wow! Non sono mai salita su una limo. L’esperienza losangelina comincia bene.
Strade larghe, spaziose. Palme, sole. Man in Black là davanti non dice una parola, ma se anche la dicesse da qui in fondo non lo sentirei.
Mi tolgo le scarpe e mi prendo una coca dal frigobar, poi mi rimetto comoda a guardare il paesaggio che passa.
Sono già stata a Los Angeles. Dieci anni fa, per due mesi. L’intenzione era di fare un lungo viaggio in macchina nei luoghi più interessanti della West Coast, ma una volta affittata l’auto (una Chrisler convertible 5000 grigia metallizzata, una vera gioia a quattro ruote!) e fatta la prima corsa sul Sunset Boulevard, non ho più avuto voglia di andare in nessun altro posto. Me ne sono stata sessanta giorni qui, a girare in macchina dalla mattina alla sera. Quindi un po’ la città già la conosco.
Per ora sarò ospite di Dino, a casa sua, in cima alla collina di Beverly Hills. Il tempo di cercare un appartamento dove sistemarmi.

Due mesi dopo
 
Non posso raccontare i venticinque giorni trascorsi a casa di Dino, perché rientrano nella sfera della sua ‘privacy’ oltre che della mia. Dirò soltanto che sono stata trattata come una regina, che la sua famiglia è meravigliosa, e che quando un mesetto fa ho messo piede nei 70mq in cui vivo ora a Sherman Oaks, al terzo piano di una corporate house con palestra e piscina in giardino che si chiama ‘Premiere’, la qualità della mia vita è drammaticamente scesa di livello. Per fortuna ho una macchina, una Pontiac 3800 di cilindrata di cui non posso lamentarmi, soprattutto dopo essermi già lamentata e aver minacciato di andarmene se non mi avessero cambiato la Ford Taurus che mi avevano dato prima, che non si muoveva neanche a spingerla.
Quanto al lavoro, ho un ufficio tutto per me, di fronte a quello di Dino, in un edificio a un solo piano (bungalow) all’interno degli Universal Studios; in fondo al corridoio, da una parte ci sono gli uffici di John, Stuart e Scott (poi vi dirò chi sono), dall’altra quello di Chris e la hall. Il mio ufficio è piccolo ma ha due grandi finestre e un’ottima esposizione quindi è molto luminoso. Le finestre danno sul sentierino di accesso al bungalow, il che mi permette di sapere sempre per prima se sta arrivando qualcuno (e chi è). Dietro al nostro bungalow c’è la DreamWorks, la compagnia di Spielberg, anch’essa nello spazio di proprietà della Universal (lot), e di fianco altri bungalows con compagnie minori, tra cui quella di Raffaella, la figlia di Dino, e quella di Ron Howard, ex Rickie di Happy Days, ora regista e produttore.
Quello che faccio qui è piuttosto vario. Traduco sceneggiature invece di romanzi o saggi, riscrivo le scene che non funzionano insieme a Dino (lui ci mette le idee, io la mano per scriverle), faccio telefonate, fisso appuntamenti, e leggo e traduco fiction, trattamenti e sceneggiature per vedere se ci si può fare un film. Insomma, sono l’assistente di Dino De Laurentiis. Non la segretaria, attenzione. Gliel’ho detto, all’inizio: “Dottore, io non sono la sua segretaria. E non ho nessuna intenzione di diventarlo in futuro. Se non siamo d’accordo su questo me lo dica, perché in questo caso qui non ci resto.” Ovviamente lui mi ha dato corda, come fa sempre. Cerca di accontentarmi come può, anche perché in sostanza a lui non cambia niente chiamarmi ‘assistente’ invece che ‘segretaria’, fintanto che rispondo alle sue chiamate personali e scrivo i biglietti di ringraziamento al posto suo (firmandoli, anche, ho dovuto imparare a imitargli la firma).
Personaggi famosi ne ho conosciuti molti e molti ne conoscono le persone che conosco. Gli unici davvero interessanti sono John Travolta, che è gay (uno dei miei sogni erotici miseramente crollato), e Tom Cruise, che non lo è. Ridley Scott ha sessantatré anni (una decina in più di quelli che mi aspettavo) ed è un uomo serissimo. Non l’ho mai visto ridere. Durante le riunioni (pardon, ‘meeting’) non si distrae mai. Una volta c’è stata una piccola scossa di terremoto e tutti si sono messi a commentare il fatto. Lui ha continuato a prendere i suoi appunti senza battere ciglio, e dopo cinque minuti ha ripreso la discussione al punto in cui si era interrotta, facendo chiaramente capire a tutti che il tempo a disposizione per le quisquilie era scaduto. Ci siamo rimessi tutti religiosamente al lavoro, Dino compreso, e il discorso sul terremoto l’abbiamo ripreso dopo, a fine riunione, quando lui s’è messo al volante della sua Rolls Royce e se n’è andato (non prima di aver fatto notare alla segretaria che la pianta all’ingresso aveva bisogno di acqua).  
Cos’altro devo dirvi… David Mamet è fuori gioco. Il suo script era proprio brutto. Quando l’ho tradotto, Dino prima di leggerlo mi ha chiesto com’era (me lo chiede sempre, temo abbia una vena di masochismo) e non sono riuscita a fingere che mi fosse piaciuto. Qui a Hollywood bisogna essere diplomatici, ma io non ci riesco. Agli screenings per esempio (la proiezione di un film agli addetti ai lavori) tutti fanno i complimenti al regista, alla fine, o al produttore, anche se il film fa assolutamente cagare. Ho sentito gente riempirsi la bocca di frasi tipo ‘congratulazioni, hai fatto un film eccezionale’ mentre stringeva la mano al regista, e commentare poi allontanandosi ‘it won’t make a penny’ [non incasserà una lira] a un collega che ridacchiava scuotendo la testa. Beh, insomma, quando poi Dino ha letto lo script, gli ho chiesto a mia volta se gli era piaciuto, e lui ha risposto ‘È bellissimo, è perfetto’. A quel punto lo script è passato nelle mani di Ridley Scott, il quale dopo averlo letto ha scritto un fax a David facendogli le congratulazioni, e un fax a Dino dicendo ‘Ci sono dei punti da discutere’. Dino ha risposto: ‘Lo so, domani meeting da me, alle tre’. Una settimana di meeting dopo, David Mamet era fuori gioco e Steven Zaillian prendeva il suo posto. 
Steven è il classico genio. Anche nell’aspetto. Capelli neri tutti per aria, occhialini con montatura azzurra, espressione distratta. È quello che ha scritto Shindler’s List, Oscar e Golden Globe nel ’94, Awakenings – Risvegli, Amistad, A Civil Action e altri film di successo, quello che ha avuto l’idea di Mission Impossibile e ha vinto un mare di altri premi che adesso non ricordo. Al momento è uno degli scrittori più quotati di Hollywood (vale a dire del mondo). Consegna scritti impeccabili. Un giorno mi ha chiamata in ufficio alle sei di sera, che a Los Angeles è come dire mezzanotte a Milano perché vanno tutti a letto prestissimo: “Grazie a Dio sei ancora lì!” ha esclamato, e mi ha pregato di prendere in mano il trattamento a p.14 per correggere un errore grave di cui non si era accorto. Ho obbiettato: “Ma la frase è uguale, anche senza virgola”. Lui allora me l’ha recitata, più volte, con e senza virgola, per farmi sentire la differenza del dialogo. E aveva ragione. La virgola ci andava. 
A giudicare dal trattamento – che è un abbozzo della sceneggiatura, diciamo così - nemmeno Steven è riuscito a risolvere i mille problemi posti dalla scrittura di questo film. Ma almeno c’è spazio per lavorarci. Lo script di David era senza speranza, invece. Il fatto è che è indubbiamente difficile adattare il libro di Tom Harris allo schermo. Tom sta dando una mano come può, benché nessuno gliel’abbia chiesta, ma la sua spaventosa creatività gli fa venire in mente dieci nuove idee al giorno e non gli stiamo più dietro, né io che devo tradurle né Dino che deve leggerle, né Steven che deve integrarle nel suo script, né Ridley che deve ripensare le scene ogni volta in modo diverso. Purtroppo nessuno ha il coraggio di dirgli di starne fuori. Tom è la punta della piramide, un suo fax è come le tavole della legge e non posso certo essere io, Mosè del terzo millennio, l’eletta a diffondere la sua parola scritta su carta e non più incisa su pietra, non posso certo essere io a dirgli di smetterla di scassarci le palle coi suoi suggerimenti del cazzo. Anche perché Dino considera Harris una specie di divinità, e Dino è quello che comanda.
Quando c’è stato l’uragano in South Carolina e in Florida (io ero ancora ospite a casa De Laurentiis), c’era la tv sintonizzata tutto il giorno sulle news per vedere se l’hurricane beccava la casa di Tom (che abita a Miami Beach). Tutti con le dita incrociate a pregare che la sua mega-villa venisse risparmiata. Anche a tavola. 
Hannibal sarà co-finanziato da due grandi Studios, Universal e MGM, che si sono divisi i costi a metà. Universal si tiene gli incassi foreign, la MGM i domestic. Che poi non cambia niente perché riuniranno tutti gli incassi insieme e divideranno 50 e 50. Sapete cos’è uno studio, vero? Un grande complesso di uffici in cui si producono i film. Quando si dice ‘Hollywood’, si intende l’insieme di questi grandi studios, Universal, MGM, Sony, Columbia, Warner Bros., Paramount, Miramax, Twentieth Century Fox e pochi altri – che si trovano quasi tutti fuori Hollywood, tra l’altro. Il grande cinema americano lo fanno loro. Ma torniamo a noi. Dino prende una specie di ‘stipendio fisso’ da produttore, più una percentuale sull’incasso lordo del film e un potere decisionale pressoché totale, visto che l’idea di fare il film è sua e si occupa di tutto lui. È quasi la prima volta che De Laurentiis non tira fuori soldi suoi per un film da lui prodotto. Fino a Breakdown il 50% del budget ce l’aveva sempre messo di tasca sua. Hannibal – dopo U-571 - è il secondo film non autofinanziato di tutta la sua vita.
Un altro progetto che stiamo realizzando è un film su Marco Polo con Antonio Banderas, scritto da Andrei Konchalovsky (quello di Maria’s Lovers e A trenta secondi dalla fine) e Chris Solimine. Parlo sempre al telefono con questi due ma non li ho ancora incontrati di persona. Di Andrei so che ha l’età di Ridley, che gli è appena nata una figlioletta, e che sarà probabilmente lui a dirigere il film. Di Chris so che è molto gentile, e infatti non vedo l’ora di conoscerlo (sarà un mostro, come tutte le volte che mi piace qualcuno al telefono, e avrà probabilmente settant’anni). Stiamo aspettando che finiscano la stesura del primo draft.
Dino poi sta anche inseguendo una sua idea per un film cronaca che vuole girare in Italia, ma per ora ha trovato solo lo scrittore, Ferrini, che non ha ancora scritto una riga perché non riescono a mettersi d’accordo sulla storia. 
Hannibal lo dovrebbero fare Anthony Hopkins e Jodie Foster, gli stessi del Silenzio degli innocenti, ma finché non avranno letto lo script, che dovrebbe essere pronto a fine novembre, non decideranno. Confesso una certa ansia in proposito. Il film mi era piaciuto immensamente e il merito era tutto loro, di Jodie e soprattutto di Anthony. La storia in sé non è che fosse gran che. Con attori diversi nei ruoli di Hannibal Lecter e Clarice Starling, non si può certo sperare di doppiare quel successo. Guardate Manhunter, un film bellissimo e diretto benissimo (da Michael Mann) ma con attori sbagliati. Ha avuto successo? No. Nessuno sa nemmeno che è il prequel del Silenzio, e che Hannibal è il sequel del sequel. Dino dice che quando hai un buon regista e soprattutto un buono scrittore, il film è fatto, e che in quel caso persino lui potrebbe recitare il ruolo di Clarice Starling. Manhunter è l’esempio di quanto si sbaglia. E dovrebbe saperlo, visto che l’ha prodotto lui. Mah!
Bene, vi ho detto più o meno tutto quello che c’è da sapere. Nel senso che d’ora in avanti capirete di chi e di cosa parlo. Manca solo qualche cenno sullo staff. Dunque, Stuart è l’avvocato di Dino. Si occupa dei contratti e di tutto quello che riguarda l’aspetto legale del lavoro del produttore. Parla come un cagnetto che abbaia, con picchi acutissimi e lunghe pause, e balbetta pure. Quando discute con Dino, chiudo la porta per non sentirlo. John si occupa di vendita e distribuzione. Fisico nervoso, molto Mr. Right, disinfetta la scrivania tutte le mattine e anche la poltrona prima di sedercisi. Avrà circa quarant’anni. Sherley è la segretaria di Dino. Belle tette, ed è pure gay. Chris è l’autista, e quando Dino non è in macchina, sta al desk. Alto, look irlandese, 29 anni, sposato con una bellissima donna di 36 (il che mi fa pensare, correggetemi se sbaglio, che ha delle doti nascoste). Infine Scott. Lavora per Dino da otto anni, ed è anche l’unica manifestazione di intelligenza umana del tipo Sapiens Sapiens all’interno dell’ufficio. Scott organizza gli spostamenti, prenota voli e alberghi, fa ricerche che altri non saprebbero nemmeno da che parte cominciare. Quando non siamo in produzione, come in questo momento, non ha niente da fare e legge il giornale tutto il giorno, oppure lavora al suo romanzo di fantascienza. È uno scrittore formidabile. Tutti si chiedono cosa ci faccia ancora qui, lui compreso. 37 anni, alto, occhi piccoli verdi, capelli taglio marine; da tutto quello che fa giureresti che è gay, ma lui dice di no. È un soggetto che voglio studiare con più attenzione.
 
***

  Vi chiederete a questo punto: ma come nasce un film, o una sceneggiatura? (Spero, almeno, che ve lo chiediate, altrimenti vi conviene saltare un po' di pagine.)
Ebbene, un film può nascere in molti modi: il più ovvio è quello che deriva dallo studio dei bollettini degli incassi e approfitta del momentaneo successo di un certo filone o di una determinata pellicola (così nascono i sequels), ma per fortuna non è l’unico (altrimenti staremmo guardando sempre lo stesso film). Succede anche che un produttore legga un romanzo interessante e decida di farci un film - che se è destinato alle sale cinematografiche, si chiama feature film. Se invece è un prodotto per la televisione, si chiama MOW, che sta per ‘movie of the week’, film della settimana -; oppure uno studio decide di fare un film su un certo argomento che è assurto agli onori della cronaca e lo affida a un produttore che cerca i talenti adatti a realizzarlo; o ancora, caso più raro, uno sceneggiatore propone il suo script a un produttore, e quello se ne innamora e lo compra – anche se non è detto che poi ci faccia effettivamente il film. La maggior parte delle sceneggiature acquistate, infatti, rimangono negli archivi; ci sono sceneggiatori che hanno scritto e venduto decine e decine di script, magari arricchendosi molto, e di cui nessuno ha mai visto il nome nei credits. Il produttore ha semplicemente comprato i diritti della sceneggiatura e da quel momento può disporne a suo piacimento, decidendo di trasformarla in un film, di rivenderla, o di tenerla lì a fare volume tra le altre in attesa chissà, magari di produrla in futuro. L’insieme di tutti i diritti delle sceneggiature, realizzate o no, appartenenti a una compagnia di produzione o a uno studio si chiama library. Dino ne aveva una straordinaria che ha venduto quando è fallita la sua precedente società, ma ne ha già ricreata un’altra piuttosto consistente. 
Comunque, indipendentemente da come nasca l’idea del film, il primo passo verso la sua effettiva realizzazione è quello della scrittura. Prima di girare un film, lo si deve mettere su carta. Le fasi di scrittura partono solitamente dal soggetto, e si concludono con la sceneggiatura. In mezzo ci sono altri due passaggi: la scaletta (outline) e il trattamento (treatment). Il soggetto è l’idea, quello di cui il film parla, la somma totale degli eventi narrati. Può occupare anche solo mezza pagina, e serve giusto a individuare le componenti principali del film, vale a dire il genere (action, commedy, fantasy, thriller, police procedural, art movie, disaster movie eccetera), i personaggi principali e la trama. La scaletta invece è solitamente più lunga, dalle tre alle dieci pagine in media, ed è la descrizione degli eventi narrati in un certo ordine, il modo in cui è organizzato il racconto, la successione degli eventi come verrà presentata allo spettatore. Per richiamare la nota distinzione tra favola e intreccio (la somma degli eventi narrati e il come sono narrati), il soggetto riassume la prima, la scaletta il secondo. La scaletta, insomma, è lo scheletro del film; è divisa in scene principali, con pochi cenni essenziali sui personaggi, e non contiene dialoghi. I fax che traducevo all’inizio per Dino, quando lui era a Capri, erano proprio gli outlines per Hannibal. Ne sono stati scritti un’infinità prima di passare al trattamento, che è la fase successiva. Solitamente si aspetta l’approvazione dell’outline da parte del produttore prima di mettersi a scrivere un trattamento, che richiede molto impegno perché è praticamente il film in miniatura. Un trattamento medio è lungo dalle venti alle quaranta pagine ed è un outline allargato, che descrive più a fondo la struttura narrativa del film, in cui compaiono anche i personaggi secondari e si rendono più vividi quelli principali, introducendo anche dei dialoghi rappresentativi. L’approvazione del trattamento scritto dallo sceneggiatore è uno stadio che richiede un iter di decine e a volte centinaia di memos in cui produttore, regista, scrittore del libro da cui è tratto il film (se ce n’è uno) e a volte anche montatore fanno i loro commenti e rispondono ai commenti degli altri, il tutto per iscritto naturalmente. A trattamento approvato si passa finalmente alla sceneggiatura, o copione. Lo script, come si chiama invece qui, è il film completo sulla carta, e la fase di scrittura dello script praticamente non finisce mai; uno script, infatti, non è un contenuto immobile come un romanzo ma una forma fluttuante, che può cambiare fino a quando il film viene montato in moviola – anche se in linea di massima lo script definitivo è quello che si approva in pre-produzione, prima di cominciare le riprese, perché è sulla base della sceneggiatura definitiva che si fa il calcolo dei costi del film. Dopo questa fase, vengono cambiati solo dettagli minori.
La sceneggiatura si scrive al presente, in uno stile il più piano e semplice possibile e del tutto privo di ornamenti letterari – quando ne trovate, avete a che fare con un dilettante -, è divisa in scene numerate progressivamente spartite in tre atti, e contiene soltanto ciò che si vede nel film, il materiale profilmico, ossia ciò che si può inquadrare con la macchina da presa. Non si può scrivere ‘a Francesca piaceva guidare veloce.’ Bisogna far vedere una donna che guida veloce e che mostra di divertirsi mentre lo fa, o bisogna inserire un dialogo in cui qualcuno o lei stessa trasmette questa informazione. Non si può dire ‘Dino è un produttore’, bisogna far vedere un uomo, che abbiamo scritto chiamarsi Dino, che fa le cose che fanno i produttori, cose che il pubblico, vedendole, dirà ‘ah, questo fa il produttore’. L’informazione è sempre contenuta nell’azione, è il suo sottotesto. E se non direttamente nell’azione, allora nei dialoghi. Scrivendo una sceneggiatura è bene evitare anche indicazioni tecniche, a cui provvede il regista. Sono ammesse solo in casi in cui davvero il tipo di inquadratura serve a sottolineare il significato della scena. La forma in cui oggi si scrivono tutte le sceneggiature è quella all’americana, coi dialoghi al centro, perché come al solito, di tutte quelle esistenti, è la più razionale e semplice. In linea di massima, le voci principali presenti in uno script sono l’intestazione, l’azione e il dialogo. L’intestazione, o titolo di scena, si scrive in stampatello a partire da sinistra e contiene le caratteristiche fondamentali della scena; essa comunica quattro informazioni: il numero di scena, la posizione della macchina da presa – interno o esterno -, lo spazio in cui la scena si svolge – location – e le condizioni di luce – giorno o notte. L’azione, o descrizione, si scrive in tondo sempre a partire da sinistra, mentre i dialoghi, preceduti dal nome in stampatello del personaggio che parla, si scrivono anch’essi in tondo ma centrati rispetto al resto del testo. Ogni a capo è uno stacco, un cambio di inquadratura. Di solito una pagina di script corrisponde a un minuto sullo schermo. Il che significa che la sceneggiatura di un film di un’ora e mezza – che adesso è un genere raro – è lunga all’incirca 90 pagine. Di solito però sono lunghe dalle 100 alle 120 pagine. 
Le sceneggiature si dividono in due grandi famiglie: originali e non originali, ovvero adattamenti. Lo script di Hannibal lo sta scrivendo Zaillian ma la storia è di Tom Harris, quindi non è originale ma è un adattamento. Non penso che Steven Zaillian abbia mai scritto nulla di suo. I fratelli Cohen invece, quelli di Fargo, Il grande Lebowski, Fratello dove sei eccetera, si inventano tutto (beh, nel caso dell’ultimo film citato ad esempio si sono ispirati a Omero, ma la sceneggiatura rimane originale). E lo stesso vale per David Mamet, il cui straripante genio creativo è a tratti seriamente imbarazzante.

Venerdì 

In ufficio. Sto lavorando alle ‘Proprietà Schermo’ del mio computer perché ho bisogno di colori più rilassanti. Le impostazioni di default sono squallide, e anche il nero su bianco del testo finestra mi è diventato insopportabile, soprattutto adesso che devo anche rispondere al telefono. Il fatto è che le combinazioni sono talmente tante… ne ho create una trentina che mi piacciono, tutte salvate con nome. Ma non so quale scegliere, sono due ore che ci penso. Per il font del titolo delle schermate ho già deciso: userò Comic Sans. Century Schoolbook è troppo severo, mi ha veramente stufato. Prima lo usavo anche per scrivere (amo mantenere una certa coerenza, almeno esteriore) ma poi non ne potevo più di sentirmi osservata e l’ho sostituito con Times New Roman. Century Schoolbook è sempre lì che giudica quello che scrivi. Che poi avete mai notato che è praticamente identico a Book Antiqua? Inquietante. 
Mentre smanetto al computer provo a richiamare Chris Solimine (è la quarta volta stamattina). Devo chiedergli quando diavolo lui e Andrei consegnano la sceneggiatura di Marco Polo. Non c’è. 
Torno alle mie schermate, decidendo di procedere per eliminazione. Ho ristretto la rosa a venti, quando suona il telefono. Purr - purr!: il 2111. Sollevo la cornetta e ascolto, ma dopo tre parole capisco che non m'interessa e trasferisco la chiamata a Scott. Gli passo tutte le junk-calls, e lui si arrabbia tantissimo, ma cosa ci posso fare se mi chiama gente con cui non m’importa niente di parlare? 
“Elisabetta, hai chiamato Chris?” Dino, dalla sua megascrivania.
“SÌ, NON C’È!” grido. Dino non ci sente tanto bene e mi tocca strillare. Sherley, Chris e Scott lasciano la loro postazione e si affacciano nel suo ufficio per dirgli chi è al telefono. Io preferisco urlarglielo, tanto lui capisce. All’inizio no. Gridavo ‘DOTTORE, KEVIN MISHER!’ e lui ‘CHI?’, ‘KE-VIN MI-SHER!’, ‘COSA?’, ‘PRENDA IL TELEFONO!’, ‘Vabbè va’…’ lo sentivo borbottare, e poi rispondere ‘Hallo. Chi è? Gary chi? Ah Carrey!, Jim, carissimo, ciao, come stai?’ Poi si è fatto l’orecchio. 
“Come non c’è, e dov’è?”
“NON LO SO, GLI HO LASCIATO UN MESSAGGIO!”
“Ah, okay.”
E comunque odio il telefono. Continuo a ricevere chiamate dagli agenti che sperano di piazzare i loro attori e da registi e sceneggiatori che sperano di parlare col produttore. Chi me la fa fare a rispondere? Non è che mi pagano.  
“Elisabetta io vado.” Dino si è materializzato davanti a me.
“Va bene, dottore.”
“Allora oggi alle due e mezza a casa mia, eh? Mi raccomando.”
“Ci vediamo lì, buon pranzo!”
“Okay, ciao.” E se ne va. Il passo tranquillo, la testa bassa, i giornali ben piegati sotto il braccio. Il suo autista lo segue da presso lungo il vialetto, come un’ombra.
Come la Mercedes si allontana, prendo la valigetta e me ne vado anch'io. Mi fermerò al giapponese a mangiare un boccone e poi andrò a casa di Dino. 
Uscire dagli Studios è sempre uno stress. I cart che circolano vanno pianissimo e dal momento che nel lot è vietato sorpassare viaggiano bellamente in mezzo alla strada, così davvero non si riesce a sorpassarli. Ovvio che quando poi si tolgono dalle palle uno è nervoso e spinge l’acceleratore. La velocità massima qui è 15 miglia orarie (figuriamoci!). Io un po’ la rispetto, non vado mai oltre le 50, che è già un bell’andar piano, ma quell’imbecille dell’omino al gate pretenderebbe che andassi ancora più piano! Io non so, questo qui, sta lì tutto il giorno a dare indicazioni alle macchine in entrata e in uscita dal lot, e gli piace pure! Tutte le volte mi fa segno di fermarmi e si avvicina al finestrino a dirmi di rallentare. Ma come si fa a vivere così? Per fortuna stavolta c’è la sbarra alzata e posso uscire sgommando.
Finalmente sulla strada normale. Palme, sole. Un pezzo di 101 (One-o-one, la freeway) e poi di nuovo palme, sole. Sosta al giapponese per un'ora di pura goduria culinaria e poi di nuovo in macchina verso Beverly Glenn, giù su e giù e ancora su, in cima alla collina. Ed eccomi a casa De Laurentiis. Ho ancora il telecomando del cancello, mi è rimasto da quando vivevo lì. Passato il cancello c’è una deliziosa stradina che conduce alla villa, e arrivati in cima c’è un piazzale con una fontana in mezzo dove si può parcheggiare. La fontana si aziona esattamente alle 8.25 di mattina. Quando abitavo qui la odiavo; la mia camera da letto affacciava proprio su questo piazzale e l’acqua che zampillava faceva un sacco di rumore con la conseguenza che, se stavo lavorando, facevo fatica a concentrarmi. Dopo un po’ di tempo sono riuscita a comunicare il mio disagio per vie traverse (ho detto a Dino che se non la faceva spegnere io smettevo di lavorare) e a farla temporaneamente disattivare.
Lascio la macchina davanti alla porta della cucina; preferisco entrare in casa da lì perché è sempre aperto e in cucina a quest’ora c’è sempre Gigi, lo chef napoletano. Lavora con Dino da sempre, da quando lui ancora era sposato con la Mangano.
“Permesso…”
“Ooh, guarda chi si vede!!” Gigi sta tagliando un mezzo quintale di pomodori in pezzetti minuscoli, con il solito grembiulino bianco intorno alla vita. “Che fai da queste parti?”
“Ciao darling! C’è una riunione.”
Lui alza la testa e mi guarda meglio. “Mamma mia, che occhiaie, cara!”  esclama coprendosi graziosamente la bocca con la mano. “Hai fatto sesso ieri sera?”
“Non ho tempo per queste scemenze. Tu?”
“Ah io il tempo lo trovo, bella mia!" 
Di tutti i gay che ho conosciuto, Gigi è il più scatenato. Convive con il suo boyfriend, di cui dice di essere molto innamorato, eppure è l’uomo più promiscuo della terra. Mi siedo su uno degli sgabelli intorno al tavolo della cucina. Accanto a me c’è una vetrata da cui si vede una parte del giardino e tutta downtown sotto. “Dai, racconta,” dico. Lui tira il fiato; non aspettava altro. Spesso (per esempio oggi) arrivo prima a casa di Dino proprio per fare due chiacchiere con Gigi. Mi rilassa. 
Alle due e mezza precise mi alzo e vado in soggiorno. Dino è già sceso ed è seduto a leggere sulla sua poltrona preferita (quella davanti al megaschermo della TV). A giudicare dalla copertina, è un romanzo sui sottomarini. Quando Dino non lavora e non guarda le partite, legge. Si fa fuori come minimo tre libri a settimana. 
“Salve dottore!” Nessuna risposta. Mi avvicino un po’ di più, ripeto il saluto. Lui alza appena gli occhi dal libro, si illumina:
“Ehi ciao bella, sei arrivata! Sto ancora aspettando questi stronzi della Universal. Siediti, vuoi un caffè? GIGI! UN CAFFÈ PER ELISABETH!”
“L’ho già preso dottore, grazie.” 
Gigi si materializza in soggiorno, alzo la mano per stopparlo. "No Gigi grazie, non -"
“Non ti preoccupare, se non lo vuoi tu lo bevo io,” m’interrompe Dino. Si beve dieci caffè al giorno. Una volta o l’altra devo dirglielo che sono troppi. Soprattutto alla sua età. 
Mi spiega lo scopo della riunione: convincere i vertici della Universal Studios, la casa cinematografica che finanzia Hannibal, che la presenza di Jodie Foster nel film non è fondamentale. Dino non l’ha mai potuta soffrire, la Foster. Dice che è brutta, vecchia, stronza e che non ha sex appeal (quest’ultimo essendo il difetto peggiore che una donna possa avere, secondo lui). Che sia stronza un po’ è vero. Non vuole neanche più leggere la sceneggiatura perché dice che ha letto il libro e che non le va di essere identificata con un personaggio violento. Come si fa a dire una stronzata simile? Piuttosto stai zitta. Ovviamente non è ancora detta l’ultima parola perché la Universal insisterà per averla e lei non può tanto permettersi di far incazzare uno studio così potente, ma Dino intanto sta mettendo le mani avanti, perché anche se il film è suo, se il produttore è lui ed è lui che decide, questi della Universal ci mettono i soldi e tocca render conto anche a loro delle scelte che si fanno. Se non sono d’accordo su qualcosa, non danno la green-light al film, ovvero il via per iniziare la produzione, il che, in parole povere, significherebbe che il film non si fa. Eventualità da non prendere neanche in considerazione.   
Quello che non mi è ancora chiaro, in tutto questo, è cosa ci faccio io qui. Quando ci sono queste riunioni Dino mi dice sempre ‘Vieni anche tu perché potrei aver bisogno di te', ma poi si dimentica persino che sono lì. Comunque, visto che me lo chiede ci vengo. Tanto trovo sempre qualcos’altro da fare nel frattempo.
Sul tavolino di fianco alla sua poltrona, accanto a una decina di tipi diversi di collirio, a un libro di Peter Maas e a un posacenere con un sigaro mezzo morto, adocchio la videocassetta del film di Minghella, The Talented Mister Ripley. È uno di quelli che devo ancora vedere. Dino ha una quantità di videocassette spropositata perché l’Academy manda tutti i film a tutti i suoi membri (the Academy of Motion Picture Arts and Sciences, quelli degli Oscar, per intenderci, che qui si chiamano Academy Awards). I film targati Universal li ha addirittura doppi perché lo studio per il suo ottantesimo compleanno gli ha mandato in regalo una cesta con le cassette di tutti i film prodotti. Gli chiedo se posso prendere Minghella in prestito.
“Ma certo, bella, tu puoi prendere in prestito tutto quello che ti pare. Lo sai dove sono le cassette, no? Scegliti i film che vuoi e portateli a casa.” Che uomo. Lo adoro. 
“Grazie dottore!” Nel salotto che dà sul piazzale con la fontana, arredato in stile British, c’è una libreria che percorre tre pareti, interrotta soltanto da una finestra che incornicia perfettamente la statua zampillante della fontana fuori. Le videocassette occupano tutto il perimetro inferiore di questo mobile libreria. Proprio mentre apro le ante del primo scomparto in basso a sinistra, dove ci sono le cassette più recenti, suona il campanello. Cinque minuti dopo, l’altro salone, quello american style con i divani enormi e il tavolo basso di marmo in mezzo, è pieno di businessmen che aspettano di essere invitati a sedersi. Ci sono anche Rick Finklestein e il suo braccio destro: sembrano gli Ambasciatori del quadro di Holbein il Giovane, immobili e attenti e con quell’aria saccente da prenderli a schiaffi. Dino ordina a Gigi di preparare i caffè e fa segno ai suoi ospiti di accomodarsi. Poi si volta con aria sperduta, come uno che si è appena accorto che gli manca qualcosa. 
“Elisabetta! Elisabetta dove sei?” 
“Eccomi dottore!” Mi avvicino. 
“Okay, tu conosci già questi signori…”
“Sì, sì… Salve, come va?” Saluto rivolgendomi a tutti. Ricevo un coro di ‘how are you’ in risposta, anche se a nessuno gliene frega niente di come sto io (ma a me ancora meno di come stanno loro).
Dino batte le mani: “Okay, cominciamo.” E si comincia. Io mi siedo sul divano di fianco alla poltrona di Dino, accanto a lui. Gli altri si distribuiscono sui due divani di fronte, macchie nere irregolari su fondo rosso porpora. Per i primi dieci minuti circa la discussione è pacata, come succede sempre; i big boys sorseggiano il caffè, si guardano tra loro e aspettano che Dino finisca di parlare prima di obbiettare. Poi comincia la battaglia. Gli americani urlano e si sbracciano. Rick Finklestein, faccia bianca e rossa, capelli crespi e occhietti piccoli e tondi, addirittura si alza in piedi. Queste riunioni sono veramente uno spreco di tempo e di energie. Tanto Dino alla fine farà di testa sua, e loro lo sanno benissimo. È il più grande negoziatore che sia mai esistito. Fa fare quello che vuole a chiunque. Un mito.
Tanto perché sia chiaro che non ho alcun dubbio sull’esito della discussione, mi alzo e torno a spulciare le cassette nella libreria, alle spalle del mio capo. Ci sono un sacco di film che voglio vedere. Girl Interrupted, American Beauty, The Bone Collector, Crazy in Alabama, The whole nine yards, Double Jeopardy… mi siedo per terra e tiro fuori tutti quelli che m’interessano, poi inizio una prima scrematura. American Beauty in realtà l’ho già visto. Grandissimo Kevin Spacey. Vorrei rivederlo ma preferisco dare la precedenza a quelli che non ho visto, quindi lo rimetto a posto. Il film di Minghella mi ha detto Scott che è una stronzata, però voglio vederlo lo stesso perché c’è Jude Law, quindi questo lo prendo. Okay, uno. Girl Interrupted devo vederlo assolutamente perché c’è Angelina Jolie, una possibile candidata per la parte di Starling in caso di rinuncia di Jodie Foster. Due. Crazy in Alabama devo vederlo perché Banderas verrà tra qualche giorno in ufficio e voglio aver pronto qualche argomento di conversazione. È la sua prima regia, quindi ci terrà molto ad essere complimentato. Tre. Double Jeopardy sono curiosa di vederlo perché Ridley l’ha definito ‘il film più idiota di tutti i tempi’ (credo non abbia ancora visto Dogma di Kevin Smith). Quattro. 
“Elisabetta, sai se ho qualche appuntamento domani?” La voce di Dino, calmissima, calda. È girato verso di me e aspetta la risposta senza dare il minimo segno di sorpresa nel vedermi seduta per terra circondata da videocassette invece che accanto a lui a seguire la riunione. Quando vivevo qui e lui guardava le partite in tv io stavo sempre nei pressi, seduta in qualche angolino o nascosta dietro una poltrona a leggere, e a lui faceva piacere avermi intorno, come un animaletto domestico. Ogni tanto si alzava e si faceva un giro dei salotti, e quando mi trovava diceva ‘ah, sei qui tu!’ e mi faceva una carezza. Poi tornava a sedersi al suo posto e si dimenticava di me di nuovo. Rick Finklestein mi guarda infastidito, invece, non tanto perché si sente poco rispettato, quanto perché non riesce a spiegarsi che diavolo ci faccia l’assistente di De Laurentiis seduta per terra in casa sua a mettere per aria il contenuto della libreria. E il non capire qualcosa lo fa sentire uno stupido (non che non ci siano altri motivi che possano farglielo pensare). Il problema è che nessuno qui sa che sono stata ospite di Dino e che di conseguenza a me è riservato un trattamento più confidenziale rispetto ad altri, e un’altra cosa che non capiscono è che essendo entrambi italiani tra noi si è creato un legame molto stretto, come è normale che accada tra persone che parlano la stessa lingua quando si trovano in un paese straniero. They don’t get these things. Per loro sono l’assistente di un grande produttore, una figura come ce ne sono mille a Hollywood, e quale produttore si porta a casa l’assistente? Se lo fa, ci deve essere qualcosa sotto. 
Rispondo allo sguardo di quella faccia di gomma di Finklestein fissandolo dritto negli occhi con aria di sfida (in caso stesse pensando che il qualcosa sotto sono io, e Dino il qualcosa sopra. Non si sa mai cosa può passare per la testa di certa gente).
 
Un altro weekend
 
Un altro weekend. Driving aroundAdoro andare in giro in macchina in questa magnifica città. Ascolto la musica, mi rilasso. E guido, una delle mie attività preferite da sempre. Qui poi il traffico è così regolare che si potrebbe viaggiare a occhi chiusi. Tutti rispettano i segnali, nessuno ti taglia la strada, non devi fare la gincana tra i pedoni e i motorini… un vero paradiso terrestre. 
D’altra parte, non ho molto da fare nei giorni in cui non lavoro. L’individuo più interessante che sto frequentando in questi ultimi tempi è il cane di Peter Donen, un mito degli effetti speciali (Peter, non il cane). Quando ho del tempo libero lo vado a prendere e lo porto a spasso (il cane, non Peter). Si chiama Shadow. È un bellissimo pastore tedesco di nove anni, docile e dolce, ed è così felice quando lo porto fuori che fa sentire felice anche me. 
 
***
 
Siamo in Rodeo Drive, io e Shadow. La via dello shopping di lusso, la Montenapoleone di Beverly Hills. Abbiamo fatto un salto da Tom Hilfiger, da cui sono appena uscita a mani vuote. Incredibile non riuscire a comprare niente neanche quando ne hai tutta l’intenzione. Ci sono cose orrende, nei negozi. Non stupisce che si vestano tutti malissimo. 
“Andiamocene al parco," dico a Shadow. Mentre scendiamo al parcheggio sotterraneo a recuperare il mezzo meccanico, incrociamo un tizio che sale verso la strada. Fossimo a Milano, sarebbe un modello. Qui dev’essere un attore, perché i modelli stanno a New York, come Victor Ward. Decido che il parco può aspettare. Va bene che sono asessuata ma, come dicevo, c'è un limite. Inverto la rotta e torniamo su Rodeo Drive. 
Mi guardo intorno. Giacca di pelle nera, jeans… eccolo, sta attraversando la strada. Lo seguiamo. Meno male che sono vestita decentemente: canottierina, jeans attillati, stivaletti a punta, giacca e cappellino di pelle, tutto nero. 
Il tizio procede verso la salitina ‘St. Moritz’. Io e Shadow gli stiamo dietro a una certa distanza. Quando si ferma davanti al negozio con gli accessori Porsche a rispondere a una chiamata al cellulare, noi cerchiamo di fingerci interessati alla vetrina di Ferrè, ma ammetto che Shadow ci riesce meglio. Finita la chiamata, il tizio riprende a camminare. Sta diventando un po' faticosa questa caccia all'uomo, e sto per desistere quando la preda si ferma al bar all’angolo e si siede a un tavolino fuori, con l’aria di uno che non ha niente da fare. 
“Ci sediamo anche noi, Shadow?” Il cane mi fa capire che non gli va. L’ho già fatto stare un’ora seduto da Hilfiger, in effetti. Vaglio in pochi secondi un paio di alternative e prima che ne abbia scelta una sono accanto al tipo col biglietto da visita in mano.
“Sei un attore?” gli chiedo, seminascosta dietro i miei inseparabili occhiali da sole (Gucci, come il cappellino).
Lui mi guarda. Due occhi azzurri meravigliosi. A me non me ne può fregare di meno degli occhi (in un uomo guardo la bocca e le mani, le cose che servono insomma, perché sono un tipo pratico) ma questi occhi mi lasciano senza fiato. Sono quasi trasparenti. 
“No, sono un avvocato.” Sorride. 
“Ah." Cavolo un avvocato? Non l'avrei mai detto. Ma mai darsi per vinti. "Beh, ti lascio il mio numero. Nel caso ti venisse voglia di fare l’attore, chiamami, sono l’assistente di Dino De Laurentiis.” E prima che lui possa reagire, mi dileguo col cane. 

Domenica

 Sette del mattino. Sono già in macchina. Del resto vado a letto alle otto e mezzo di sera, per quanto sia una persona che ha bisogno di dormire molto, più di un tanto è fisiologicamente impossibile. È una giornata ‘gloriosa’, come dicono qui. Sto andando a prendermi il giornale e poi a fare colazione al Getty, che ospita un quadro di Tiziano; ma non è per il quadro che ci vado, bensì per godermi lo spettacolo di Los Angeles dalla terrazza. Lettura dei giornali e colazione con vista; un vero bagno di salute. Mi fermo su Ventura, al news-stand vicino a casa mia. Corriere e Repubblica, per l’equilibrio dell’informazione. Non c’è in giro un’anima. Questa grande via, che di sera si accende di luci colorate e pulsa di vita frenetica, è desolata come il parcheggio di un supermercato il giorno di chiusura. Mi fermo accanto al marciapiede e scendo dalla macchina, tranquilla, coi miei jeans Levis (che qui si pronuncia ‘livais’, assurdo) e una self-made T-shirt bianca con la scritta I’m not somebody you can rely on. Sono molto fiera di questa maglietta, anche se la più bella è quella che ha fatto fare Dino, con la bandiera italiana e la scritta: Life is too short not to be Italian. Fantastica. La indosso spesso anche se essendo taglia unica mi sta enorme.
Il giornalaio sta ascoltando la radio, seduto sotto l’ombrellone al riparo da un sole che ancora non c’è. È una di quelle tipiche edicole americane all’aperto, con tutti i giornali esposti su una singola parete. Corriere e Repubblica, di ieri e di oggi, please. Il tizio armeggia al rack, la Repubblica di ieri non c’è, anzi sì eccola, non c’è quella di oggi, anzi no, è il Corriere che oggi non c’è, no…, e io già sto perdendo la pazienza, ma sto zitta, perché sono una persona educata. Otto dollari e rotti. Gli do una banconota da venti. Lui la guarda, poi alza gli occhi verso di me con aria stupefatta, come se gli avessi dato un assegno da centomila dollari.
“Beh?”
“Non ha pezzi più piccoli?” chiede.
“Intende un biglietto da dieci dollari? O vuole ottocentotrentaquattro monete da un centesimo?”
  “Non ho da cambiare pezzi grossi!”  
“Ma sono venti dollari!”
“Appunto!”
Tiro un respiro profondo. “Senta, no, mi dispiace, ho solo questi.”
“Okay, allora se mi aspetta vado a cambiarli là di fronte.” Guardo dall’altra parte della strada. Una specie di breakfast place. E tra quello e noi, tutta la larghezza di Ventura Boulevard. Roba che questo ci metterà un’ora. Qualcuno ha scritto che a Los Angeles se vuoi andare dall’altra parte della strada devi esserci nato. Comunque non ho scelta. Non posso lasciargli dodici dollari di mancia.
  “Okay, aspetto qui,” rispondo rassegnata. “Posso sedermi sulla sua sedia?”  
“Prego, prego. Arrivo subito.” Un minuto, due minuti. Non passa nessuno e sto qui seduta sotto un ombrellone sul marciapiede, circondata dal cemento, nella desolazione più assoluta. Brutta vita sarebbe, per me, quella dell’edicolante. Per cominciare mi annoierei a stare qui tutto il giorno a vendere i giornali. E quando fa freddo? E quando piove? E quando fa caldo?
 
Lunedì mattina
 
Dino è seduto alla sua scrivania. Io alla mia, nell’ufficio dirimpetto al suo.
Suona il telefono, è la sua linea e purtroppo tocca rispondere a me, anche se so benissimo che non stanno chiamando me. 
Un tizio che deve chiudere un articolo per la sua rivista mi chiede se può parlare con Mr. De Laurentiis. Cosa vuole sapere?, domando. Risponde che preferirebbe parlarne direttamente con lui. Gli dico che anch’io preferirei essere Angelina Jolie. Per fortuna capisce e sputa il rospo: vuole chiedergli se è vero che ieri sera stava fumando marijuana con Sharon Stone. Sicuramente no, gli dico, ma lui insiste, sostiene di aver avuto l’informazione da una fonte fidata. Lo metto in attesa e raggiungo Dino nel suo ufficio (troppo complicato da spiegare urlando). Mi avvicino alla scrivania. Tra la moquette rossa alta e soffice che attutisce il rumore dei passi e lui che tiene il giornale spiegato davanti a sé, non mi vede né mi sente entrare. 
“Dottore?” La sua testa fa capolino da un lato della Gazzetta dello Sport; quando vede che sono io la abbassa sulla scrivania e mi sorride. Oggi indossa un’ottima giacca di tweed con la camicia azzurro chiaro, il cardigan giallino e la cravatta di lana blu. Impeccabile, come sempre. 
“Ciao bella, come stai?”
“Come prima, grazie. Senta, c’è un tizio in linea che vuole sapere se ieri sera lei stava fumando marijuana con Sharon Stone.”
“E chi è?”
Gli dico il nome del giornalista e della testata per cui scrive. 
“Ah sì, questo mi chiama sempre. Vabbé va’,” borbotta recuperando l’immancabile sigaro che si sta consumando nel posacenere. “Ma tu resta qui,” ordina, sollevando la cornetta e premendo il pulsante del vivavoce. 
“Hallo. Sono Dino De Laurentiis.”
“Buona sera Mr. De Laurentiis, come sta? Ho una domanda per lei. La mia amica Mimì sostiene di averla vista a una festa, ieri sera, e dice che stava fumando marijuana insieme a Sharon Stone. Me lo confermerebbe?”
“Insieme a CHI?”
“A Sharon Stone.”
“E chi è?”
Mezzo minuto, mentre il giornalista gli spiega chi è Sharon Stone. Dino non presta alcuna attenzione ai nomi degli attori. Da anni chiama Jodie Foster ‘Judy’, pur sapendo che la cosa la fa imbestialire e pur essendo stato più volte corretto. Il fatto è che gli attori sono solo merce, per un produttore. È il pubblico che osanna gli attori. Per produttori, registi e sceneggiatori, gli attori sono solo gusci vuoti da riempire. Occupo il tempo guardando le foto dei figli di Dino appese alle pareti. Ce n’è una stupenda che ritrae Dino e Raffaella con quegli occhiali da sole enormi che si usavano una volta. Credo sia stata scattata a Capri. 
“Ah, Sharon! La conosco benissimo, certo! Splendida donna.”
“Sì, ne ero sicuro. È vero allora che ha fumato marijuana con Mrs. Stone ieri sera?”
“Non mi ricordo.” Il giornalista fa per ribattere qualcosa ma Dino taglia corto: “Senta, mi dispiace guardi, non mi ricordo, arrivederci.” E chiude. 
“Dottore… ma… perché gli ha risposto così?” Non riesco a fare a meno di chiederglielo, anche se ho imparato che è meglio non fargli domande perché si scoccia a rispondere.
“Così come?”
“Ma scusi, lei ha mai fumato marijuana in vita sua? E poi ieri sera non aveva la cena col console?”
“Sì sì, ma chi se ne frega, tanto scrivono lo stesso quello che vogliono!”
Vorrei chiedergli allora perché ha preso la chiamata, ma sarebbe un’altra domanda e non voglio tirare troppo la corda. 

Sabato sera

Sto uscendo a cena con Peter. Quando gli ho riportato Shadow mi ha invitata a cena e non ho potuto dire di no, visto che mi ‘presta’ il suo cane ogni volta che glielo chiedo – praticamente tutti i weekend, e spesso anche durante la settimana, anche se in quei casi mi limito a una passeggiata di un’oretta nel suo quartiere. Oggi l’ho portato all’Hollywood Reservoir ed è stato bellissimo. Ci siamo divertiti come pazzi. Io scappavo e lui doveva prendermi. Ci ho messo un po’ a fargli capire che doveva aspettare a partire per lasciarmi un po’ di vantaggio, ma quando l’ha capito, non voleva più smettere di giocare. Quando mi prendeva mi buttavo a terra e lui mi zompava addosso o mi saltava intorno abbaiando. Al ritorno gli ho fatto fare una corsa sulla Mulholland con la musica a palla. Scommetto che non l’aveva mai fatto. Ha tenuto tutto il tempo il muso fuori dal finestrino, era contentissimo. Abbiamo un ottimo rapporto, io e Shadow, fatto di affetto, fiducia e rispetto; ci vediamo quando ho tempo e quando mi va, senza impegno, e lui non me ne vuole per questo, anzi è sempre di ottimo umore quando mi vede. Com’è che non si riesce ad avere un rapporto così con un uomo? Io almeno non ci riesco; quelli che conosco io mettono il muso se dico che non ho voglia di vederli. Shadow invece non ha di queste insicurezze, è perfettamente all’altezza di un rapporto senza vincoli. Dovrei stupirmi del fatto che un cane sia meglio di un uomo? Non direi proprio. 
Con Peter andiamo da Teru Sushi su Ventura, come al solito. Il tonno lì è ultradivino. Ci sediamo all’unico tavolo libero e non facciamo in tempo a guardarci intorno che arriva il cameriere, puntuale come l’avviso del commercialista quando c’è da pagare l’ICI. 
“Cosa posso portarvi da bere?”
“Per me una Coca Cola,” rispondo, poi alzo lo sguardo verso di lui e aggiungo: “Senza ghiaccio”. Qui riempiono i bicchieri di ghiaccio all’orlo e poi ci versano dentro una goccia di Coca. Possono fregare questi tordi degli americani. A me non mi fregano di certo. 
È carino questo posto, illuminazione d’atmosfera, tavoli di legno con panche. Ed è sempre strapieno. Ti servono subito perché non vedono l’ora che te ne vai per far sedere altri clienti. 
“Com’è andato cena con Scott ieri sera?” mi chiede Peter, che se non l’ho ancora detto, oltre a lavorare agli effetti speciali è il figlio di Stanley Donen, il regista di Cantando sotto la pioggia. Ha vissuto alcuni anni in Italia e gli fa piacere parlare italiano con me.
“Bene,” rispondo annoiata. “Purtroppo non gli è piaciuta la cucina, ha rimandato indietro tutti i piatti che ha ordinato.”
“Io non mando mai indietro niente, solo se è veramente cattivo.”
Arriva il cameriere con la Coca. Lo fulmino con lo sguardo. “Avevo detto senza ghiaccio,” gli ricordo. Lui mi guarda con la stessa faccia di Eliot quando vede E.T. per la prima volta e non risponde. È chiaro che non fa questo lavoro per pagarsi gli studi.
“Voglio una Coca intera, non dell’acqua aromatizzata alla Coca.”
“Ma è una lattina intera, è il bicchiere che è grande…”
“Vuole che tolga tutti i cubetti di ghiaccio per farle vedere quanta Coca rimane?”
Lui sta per rispondermi di sì ma il cameriere di fianco a lui, che sta servendo il tavolo dietro di noi, gli fa segno di lasciar perdere.
“Le porto una lattina allora,” cede.
“Speriamo,” dico al grembiulino bianco che porta in vita. Sto guardando lì perché immagino sia quella la zona in cui ha sede il suo cervello. Lui gira sui tacchi e se ne va, più seccato di me.   
“Io lo mando indietro solo se è veramente cattivo,” ripete Peter, per assicurarsi che non mi sia persa questa vitale informazione. 
“Bravo, fai bene,” rispondo distratta guardando l’orologio per vedere quanto manca ad arrivare a lunedì. 35 ore.
                 
***
 
Un’altra bellissima giornata, col cielo azzurro come nella Milano di Manzoni (il cielo è così bello quanto è bello, ricordate? Sì, okay, era la Lombardia, ma Milano dov’è? In Sicilia forse?). Ora di pranzo. Spesso noi dell’ufficio mangiamo al Commissary, la ‘mensa aziendale’ della Universal, ma ogni tanto io e Scott optiamo per il giapponese al City Walk, che non è affatto male. Ci stiamo andando proprio adesso. Saliamo sul cart (guido io) e ci avviamo verso la sommità della collina, cantando That’s amore a squarciagola. Sorpasso la navetta di turisti in visita agli Studios che sta girando a sinistra verso New York Street, una perfetta ricostruzione di una via di New York. 
When the moon hits your heart like a big pizza pie that’s amore! 
Dal pullman ci guardano con aria stranita e ci scattano mezzo rullino di foto. Voltiamo a destra, ancora qualche minuto e siamo arrivati. Il City Walk è un quartierino con cinema, negozi e ristoranti di proprietà della Universal. Un posto delizioso per passare le ore, anche se è una lotta farsi largo tra le migliaia di turisti; per fortuna loro entrano dall’ingresso per il pubblico; per noi dipendenti c’è un accesso riservato, motivo per cui non dobbiamo dimenticare di appenderci il badge al collo. 
Al ristorante, ci sediamo al tavolo che abbiamo prenotato, l’unico libero. Il cameriere viene a prendere l’ordinazione appena ci vede, perché ormai sa che andiamo sempre di fretta. Non perdo tempo a salutarlo tanto non gliene può fregare di meno e ordino senza nemmeno alzare la testa per guardarlo: una Coca senza ghiaccio, salmon sashimi, tuna sashimi, california rolls, salmon rolls, white steamed rice e seaweed salad. Scott prende una birra, california handrolls e sushi misto. Siamo seduti fuori, al sole.
“Allora stasera ceni con Thomas Harris,” dice.
Annuisco. Sono abbastanza eccitata al pensiero, trattandosi di uno scrittore che adoro, ma mi sento un po’ a disagio perché so che anche a lui farebbe piacere essere presente a questa cena, mentre Dino invita sempre e solo me. Scott non è mai neppure stato a casa di Dino (nessuno dell’ufficio ci è mai stato), e lavora per lui da quasi un decennio. 
“Com’erano le sue note di oggi?”
Affondo la prima fetta di salmone crudo nella salsa di soia: “Insiste con la voce over di Starling che legge il diario, e vuole che Lecter faccia pervenire all’FBI una videocassetta con la scena della cena a base di cervello proprio durante l’interrogatorio di Starling.”
“Idee pessime. Hai ragione a pensare che Dino non userà nessuno di questi suggerimenti.”
“Infatti.  Non gli piaceranno per niente.”
 
***
 
“Fantastici i tuoi suggerimenti, Tom,” ha appena detto Dino seduto alla mia sinistra all’enorme tavolo della sala da pranzo di casa sua. Thomas Harris è seduto di fronte a noi, mentre la moglie di Dino, Martha, è a capotavola, alla sinistra del marito. È una cena informale e siamo tutti vestiti sportivi: io, Dino e Martha in jeans e maglietta, Harris in camicia a quadretti stile sudtirolese e calzoni di velluto tenuti su da vistose bretelle. 
“Grazie Dino,” risponde Thomas annuendo brevemente con la testa.
Siamo solo noi quattro nella grande sala. Le tende della lunga parete a vetri sono tirate e in lontananza s’intravedono le mille luci di downtown e gli ultimi piani illuminati del Westin Bonaventura, del Wells Fargo Center e del First Interstate World Center. Guardo fuori, immaginando chi ci potrebbe essere adesso negli ascensori esterni del Bonaventura, a godersi la vista spettacolare sul Business District. C’è silenzio intorno a me, nessuno di noi sta parlando. Come a teatro quando c’è attesa per un grande attore e comincia ad aprirsi il sipario. Qui il protagonista della serata dovrebbe essere il cibo. Harris ama molto la buona tavola, e a Dino piace viziare i suoi ospiti, specialmente Tom, per il quale nutre un’irrazionale venerazione. 
Incrocio lo sguardo del grande scrittore. Ci sorridiamo. Thomas Harris. Quello che ha scritto Red Dragon. Quello che ha inventato Hannibal Lecter, uno dei personaggi più straordinari della letteratura moderna. Seduto qui davanti a me. Stento a crederci. Mi ha salutata con entusiasmo quando Dino ci ha presentati, dieci minuti fa. È un omone gentilissimo, dall’aria mite. Una specie di gigante buono. Ci parliamo spesso al telefono e sa che traduco io tutto quello che scrive, ma non ci eravamo mai visti di persona. Ha detto che sono la sua voce, il suo mezzo di comunicazione col grande produttore, e che gli fa piacere che almeno in questo caso la sua voce sia in un corpo così grazioso. Non è una cosa carina da dire? 
Finalmente Gigi rompe il silenzio con la prima portata. “Penne alla siciliana!” annuncia, mentre la colf, Daisy, entra col carrello e distribuisce i piatti. Gigi indossa camice e cappello bianchi da chef e ha un’aria seria e compassata. È chiaramente emozionato anche lui.  Tutti pazzi per Tom, qui. 
Harris sorride e si appoggia il tovagliolo sul pancione, preparandosi alla grande abbuffata. 
“Eh, eh, sentirai che bontà!” gli dice Dino sghignazzando, aspettando che assaggi le penne. Tom Si guarda intorno per assicurarsi che tutti abbiano avuto la propria porzione, poi fa un piccolo cenno della testa come a dire ‘cominciamo’ e inforca il primo boccone. Appena comincia a masticare…
“Allora? Scommetto che così buone non le hai mai mangiate! Che mi dici?” 
Tom accelera la masticazione e si affretta a ingoiare spingendo un po’ a fatica il cibo giù per la gola. Sta diventando tutto rosso.
“Sono buone o no?” incalza Dino. Gli do una gomitatina per scongiurare l’eventualità che Tom si strozzi per rispondergli.
“Sì, è vero,” riesce finalmente a dire Tom. “Mai mangiate così buone. Forse in Italia…”
“No, no, buone così è impossibile, neanche in Italia!” ribatte Dino. Poi si gira verso di me. “Elisabetta, prendine ancora, che ci mangi con quelle? Tieni… per me queste sono troppe,” e versa metà delle sue penne nel mio piatto, ignaro dell’occhiataccia che gli sta lanciando la moglie, che forse gradirebbe una più stretta osservanza dell’etichetta.
“Ma anche per me sono troppe!” protesto io, poi guardo Martha e zittisco. Di nuovo silenzio. Tutti mangiano. Sembra di essere in una chiesa vuota. 
“Sei mai stato a Milano, Tom?” mi decido a chiedere per rompere il ghiaccio.
Il gigante buono solleva lo sguardo dal piatto e lo appoggia su di me con un’espressione che giurerei sia gratitudine.
“A dire il vero solo una volta, purtroppo. La conosco pochissimo,” risponde col suo vocione baritonale. “Ma mi piacerebbe tornarci. È che io amo così tanto Firenze che ogni volta che vado in Italia finisco per stare sempre lì.”
“Ci vai spesso?”
“Sì, e pensa, non parlo una parola d’italiano!”
“Eh, questo è grave!”
“Lo so,” dice lui afferrando il bicchiere di vino rosso e facendo un cenno di ringraziamento a Daisy che gliel’ha appena riempito. “E neanche di francese. Ho una casa a Fountainbleau, in Francia, dove trascorro lunghi periodi di riposo, e non so una parola di francese, a parte i nomi dei vini!”
“E come mai?” Sorseggio anch’io un po’ del Barolo del ‘91, un vino vellutato e profumatissimo.
“Sono negato con le lingue. È un dono che non ho.”
Sorrido, a corto di argomenti. 
“Tu ce l’hai, invece,” dice. 
“Mica tanto. Me la cavo meglio a scrivere che a parlare.” 
“Ah, su questo non ho dubbi! Dino dice meraviglie delle tue doti di scrittrice e tutto il mondo sa quanto quest’uomo sia incontentabile.”
“Ma io sono una traduttrice, non una scrittrice.”
“E chi traduce cosa fa? Scrive. Il tuo mestiere è un mestiere molto difficile, io lo capisco benissimo. Perché il traduttore è uno scrittore che deve saper scrivere in tutti gli stili, non solo in quello che gli viene naturale. Ci vuole un talento incredibile, quindi eccome se sei una scrittrice.”
Avrei altre obiezioni ma mi astengo per non rovinare il momento. Mi sento come Sabrina sulla cabriolet di David Larrabee quando lui le dà un passaggio a casa senza averla ancora riconosciuta.
“Traduci anche dal francese?” continua Tom, non tanto per  interesse, credo, ma perché sembro l’unica a questo tavolo disposta a fare conversazione. 
“Raramente. Lo parlo bene però.” Balla galattica, ma tanto lui non può verificare. 
“Mi sono sempre chiesto se sia più musicale il francese o l’italiano. Tu che ne pensi?” Sto per rispondere quando Dino mi interrompe. Mi accorgo con orrore, appena comincia a formulare la frase, che sta per chiedermi una cosa di lavoro di quelle che possono aspettare tre settimane. Guardo Tom imbarazzata per scusarmi dell’interruzione, lui mi fa segno di non preoccuparmi.
“Non lo so, dottore, manca quasi un mese…” rispondo a bassa voce. 
“Come non lo sai? Il dischetto ci vuole, devi fartelo dare.”
“Va bene, chiederò a Steven di darmi anche il dischetto.”
“Okay. Ricordati, eh?”
Dino è un mito. Glielo dico sempre. Glielo scrivo anche sui post-it che gli lascio la sera sul bordo della scrivania per farglieli trovare al mattino. Quando poi arrivo in ufficio, prima ancora di darmi il buongiorno mi chiede insospettito perché gliel’ho scritto. ‘Perché lo penso. E perché se no?’ ‘Ah, va bene allora,’ dice lui, e mi chiede di portargli una tazza di caffè, che è il suo modo per mostrare attenzione verso qualcuno. Infatti adesso ho deciso di smettere coi post-it. 
Guardo Tom. Sta ancora sorridendo. Ma a Daisy adesso, che si sta avvicinando col vassoio delle cotolette. Quando passa accanto a Dino, lui ne afferra due con le mani di volata e ne mette una nel mio piatto e una nel suo. 
“Ecco, mangiamoci queste che sono buonissime." 
Daisy fa una smorfia di disappunto e prosegue a servire Tom e Martha con le posate da portata. Martha scuote la testa, ma più intenerita che infastidita.
Durante il secondo, Tom, riscaldato dal cibo e dal vino, ci intrattiene con una serie di amabili aneddoti, infarcendoli di osservazioni colte. Ama raccontare storie e parla a voce bassa, col tono di chi ha la certezza di essere ascoltato. Lo stiamo tutti a sentire con l’aria attentissima di chi sta seguendo una conversazione in un’altra lingua, ma quando attacca col genio di Botticelli e Piero della Francesca, Dino decide che ha ascoltato abbastanza e lo interrompe con argomenti più concreti.
“Tom, stai a sentire me adesso. A fine mese Steven Zaillian consegnerà il primo draft. Tu sarai il primo a riceverlo.” Glielo dice come se lo stesse informando che gli lascia tutta l’eredità.
“Wonderful,” commenta Tom.
“Com’è la tua camera, ti piace?” chiede, come se ci fosse un collegamento logico tra le due cose.
“È fantastica, grazie.” Scommetto che Dino sta pensando ai 1.300 dollari a notte che gli è costata quella dannata suite col camino allo Chateau Marmont (Tom ha la fissa dei camini). Ecco qual è il collegamento. Il costo della suite, e quello di far riscrivere il copione allo sceneggiatore più caro di Hollywood. 
Dino non ha altro da aggiungere. Mi riprendo Tom, tornando alla Crocefissione di Urbino. 
 
***
 
La cena è finita, ma siamo ancora seduti a tavola. Dino si è fatto portare via il piatto ed è assorto nella lettura delle note di Tom; ci sta tracciando sopra croci a tutto spiano. Martha ha lasciato la sala. Io e Tom stiamo parlando di terremoti. Mi sta raccontando di un suo amico che si era studiato tutto il percorso di casa sua di corsa al buio per scappare senza urtare i mobili in caso di scosse. 
“Beh, questo era più stressato di me,” commento io, che gli ho appena raccontato dello spavento che mi sono presa il 16 ottobre scorso, anniversario della nascita di Oscar Wilde, nonché data in cui una scossa del settimo grado della scala Richter ha colpito la città in cui vivevo da pochi mesi. La terra ha ballato per 45 secondi. È stato il terzo terremoto del secolo per intensità. Se l’epicentro fosse stato più vicino, invece che nel deserto del Mojave, non sarei qui a raccontare questa storia. 
“Sì ma poi nel 1994 gli è servito, è uscito di casa in due minuti senza farsi un graffio,” replica Tom.
“Non so cos’è meglio,” rispondo pensierosa. “Ne uccide più la tensione del terremoto. Sai, no? Tension is a killer,” aggiungo citando i Soliti sospetti, il capolavoro di Bryan Singer. Tom ride di gusto. Sa di cosa sto parlando. 
“Bello quel film. Mi piace Kevin Spacey,” dice.
American Beauty?” interviene Dino alzando brevemente lo sguardo dalle note. “Lo piglierà quello, l’Oscar per il miglior film.”
Post scriptum: noi stavamo parlando di un altro film, ma Dino ci aveva azzeccato. L’Oscar l’anno successivo l’ha vinto proprio il film di Sam Mendes. 

Metà novembre

 
È un bel mattino soleggiato e sono nella hall dell’ufficio, tutta vestita carina (completino chiaro di cachemire Malo con gonna lunga e maglia aderente a nido d’ape) davanti a un tizio che mi guarda sorridendo, alquanto imbarazzato dal mio sguardo fisso e dal fatto che me ne sto muta e immobile come una statua. Sono rimasta di sasso, e ci sto mettendo un attimo a riprendermi. Voi come ve lo immaginate Andrei Konchalovsky? Sì, quello di Maria’s Lovers, Tango & Cash, A trenta secondi dalla fine, Il proiezionista eccetera. Se ci aveste parlato per un mese al telefono e l’aveste trovato alquanto piagnucoloso, con una voce da vecchio lenta e monotona, se sapeste che è uno dei registi russi cosiddetti ‘impegnati’ e che ha sessantatré anni, come ve lo immaginereste? Io lo immaginavo così, esattamente come voi. Il che non corrisponde affatto agli ottantacinque chili occhio e croce invidiabilmente distribuiti per verticale che ho davanti a me, che cominciano con stivali a punta, jeans con cintura di cuoio, giacca di renna trasandata molto trendy, labbra umide che scoprono denti bianchissimi e perfetti, viso scavato e abbronzatissimo con occhiali da sole a specchio, e finiscono dopo almeno un metro e novanta con capelli dritti lunghi e setosi. Sono folgorata.
La segretaria mi viene in soccorso, benedetta ragazza.
“Mr. Konchalovsky, Mr. De Laurentiis la sta aspettando. Se vuole seguirmi.”
Scappo in bagno. Dino mi vede passare dalla porta aperta del suo ufficio e mi chiama per chiedermi qualcosa sulla sceneggiatura di Marco Polo che Andrei sta scrivendo con Chris Solimine e che per ora non gli piace gran che. Rispondo velocemente alla domanda e mi dileguo prima che arrivi Konchalovsky
“Stai qui, dove vai?” mi urla Dino.
“Ho gente al telefono!”
“Ah, vabbè.”
La gente al telefono è mio cugino, che voglio chiamare subito per raccontargli la galattica figura di merda che ho appena fatto. Da non credere. Un mese di pubbliche relazioni rovinate in pochi istanti. Andrei mi riteneva una persona affidabile e competente, abbiamo passato ore a discutere al telefono della sua sceneggiatura, lui mi ha anche detto delle cose pregandomi di non riferirle a Dino che io invece gli ho prontamente riferito perché Dino mi ha insegnato che quando i registi confidano qualcosa all’assistente del produttore pregandola di non dirlo al produttore lo fanno proprio sperando che invece glielo dica altrimenti non lo direbbero certo all’assistente del produttore, ‘E proprio a te lo verrebbe a dire? Andiamo Elisabetta, sveglia!’ mi ha detto Dino una volta, e ho imparato la lezione, adesso tutto quello che mi dicono raccomandandosi la confidenza lo ripeto tale e quale a Dino, e lui è piuttosto orgoglioso di me per questo. 
   
Tre dicembre
 
Dopo mesi di gestazione è finalmente arrivata la sceneggiatura di Hannibal. Sono chiusa in ufficio a tradurla dall’altro ieri, con Dino che aspetta fuori dalla porta come se stessi partorendo un figlio suo. 
Un improvviso rumore di voci da fuori. È la mia porta che si è aperta. Vedo spuntare la testolina bianca del capo.
“Com’è?” mi chiede di nuovo. Me l’ha già chiesto venti volte, ma non ho mai risposto perché era ancora presto per esprimere un giudizio.
“Fantastica,” rispondo adesso, perché lo penso. 
“Eh, certo, Steven è bravissimo,” commenta lui, e richiude la porta. Capisco che voglia convincersi che sia bravo, visto che lo paga 250.000 dollari a settimana (che in questo momento da noi sono 500 milioni di lire).
Dopo qualche ora finisco, stampo e consegno il tutto a Chris da rilegare. 
Mi sento leggerissima. Così leggera che devo andare a mangiare qualcosa, altrimenti prendo il volo. Monto in macchina e tempo d’inforcare gli occhiali da sole sono già al gate. L’omino nel gabbiotto mi guarda con disprezzo e disapprovazione, come sempre. Gli faccio il saluto militare e aspetto con pazienza che alzi la sbarra. Sono di buon umore oggi, quindi non premo nemmeno sull’acceleratore per fargli capire che ho fretta. Aspetto e basta. Quando la sbarra si alza, faccio partire Smooth di Santana a volume impossibile, poi spingo sull’acceleratore e gli sfreccio davanti come un fulmine. Sto ancora ridendo immaginando la sua faccia disgustata. Il volume ovviamente lo abbasso, adesso, mica che divento sorda. 
 
Undici dicembre
 
È sabato e a quest’ora non c’è in giro nessuno. Dino mi ha chiamata stamattina alle sei e mezza. Sto andando da lui. Quando vivevo a casa sua mi svegliava ogni mattina alle cinque. Entrava piano piano in camera mia, faceva il giro del letto e mi metteva una mano sulla pancia, ‘Elisabetta, bella, stai dormendo?’ Se non mi svegliavo subito, mi dava dei colpetti sempre più forti su una spalla e quando aprivo gli occhi sussurrava: ‘Su, su, c’è da lavorare, la colazione è pronta, vai a mangiare e non ci mettere mezz’ora’ oppure ‘Ma che fai, dormi sempre?’. Mi sciacquavo il viso, mi spazzolavo i denti, mi legavo i capelli, mi infilavo la prima cosa che trovavo e scendevo in cucina, dove Daisy mi aveva preparato una superba colazione con beveroni di arancia, sedano e carote da leccarsi i baffi. Alle sei io e Dino cominciavamo con le note ai copioni, seduti al tavolo rotondo del soggiorno, con il sole che spuntava e la città che si svegliava lentamente, faticando a uscire dalla bruma. 
Faccio la Mulholland, così mi godo il panorama di questa incredibile città. L’avete mai vista di notte? Los Angeles dall’alto è uno spettacolo mozzafiato. Non scherzo. E la Mulholland è una delle strade più divertenti del mondo. James Dean ci è morto a bordo di una Porsche. Meglio che morire in ospedale o in una vasca da bagno per overdose, per come la vedo io.  Avete presente il quadro di David Hockney che la raffigura? S’intitola proprio ‘Mulholland Drive’ e non so dove sia ora, io l’ho visto al Thyssen Bornemisza di Madrid, ma forse era in prestito. Comunque, la Mulholland è così, una babilonia di curve meravigliose. Se non volete venire fin qui a vederla, almeno guardate il quadro. 
Sto ascoltando Someday di Sugar Ray. Il tizio che la canta ha una voce pazzesca e avendo solo questa canzone ogni volta che finisce la rimetto daccapo. La sto sentendo da un paio di settimane ormai, insieme a Leave Your Lights On di Santana, che sentirò per tutta la vita, credo. Ci sono amori che non finiscono mai. 
Entro in cucina, saluto Gigi, bevo il caffè, mollo lo zainetto di Gucci su una sedia e vado in soggiorno con la valigetta del computer. Dino è seduto al suo tavolo con la tazzina di caffè in mano, rapito dalla lettura dell’Orlando Furioso di Ariosto. Davanti a lui, accanto al sigaro acceso nel posacenere, c’è la versione italiana del copione di Steven Zaillian piena di post-it gialli (quelli grandi, che Dino appiccica per verticale pagina per pagina con tutte le sue note scritte sopra). 
“Buongiorno dottore,” dico a bassa voce.
Lui alza la testa, mi guarda: “Ehi bella, buongiorno a te. Eh, qui c’è un sacco di lavoro da fare,” dice con aria grave.
Prendo la mia copia dello script, in originale ma con le pagine perfettamente corrispondenti a quelle della mia traduzione, e mi siedo. 
“Perché? A me sembrava così bello…”
“Eh, ti sembrava,” replica, affranto. “Tanto per cominciare, a te che te ne pare di ‘sta scena al cimitero, qui?”
Ci penso un attimo. Dino mi guarda impaziente. Vorrebbe che gli dicessi che non mi convince. Ma io non so mentire. E lui lo sa.
“Secondo me funziona.”
Non essendo la risposta che voleva, alza subito la voce: “Ma alla gente non gli piace vedere i cimiteri, dobbiamo toglierla ‘sta scena! E poi è troppo lunga!”
“Dottore, a lei non piace vedere i cimiteri, non alla gente. Sulla lunghezza okay, si potrebbe tagliare un po’.”
“Ecco, vedi che mi dai ragione? E già che la tagliamo, tanto vale che la eliminiamo del tutto.”
Come si fa a ragionare con uno così? Non si può. “Va bene, la taglieremo allora. Steven ci ha messo una settimana a scriverla ma non importa, gliene pagheremo altre due per scriverne un’altra senza cimitero.”
Lui mi guarda. Ho colpito nel segno. Ormai lo conosco. Quando si parla di soldi, Dino ritrova subito la lucidità. 
“Va beh, allora sai che facciamo? Ci rimettiamo la scena di prima.”
“Quella che non le piaceva e che Steven ha sostituito con questa del cimitero?”
“Eh.”
“Okay. È proprio vero che chi troppo vuole nulla stringe,” commento, desolata. Avrei dovuto  pensarci a dire a Steven che Dino odia i cimiteri. Non mi è venuto in mente. Un’assistente che si rispetti ci avrebbe pensato. Non so come faccia Dino ad avere tanta stima di me. Sono un disastro.

Domenica
 
In macchina. A godermi il caldo e il sole e questo cielo smisurato e queste strade in cui non viaggia nessuno, di domenica, come se la gente le evitasse appena ne ha occasione. Sto andando da Robert, l'avvocato. Usciamo insieme da un po'. Quando mi ha chiamata e mi ha detto che non gliene fregava niente di fare l’attore ma gli sarebbe piaciuto che accettassi un invito a cena, non mi sembrava vero. Peccato che non mi piace già più. Robert non è solo bello, è sexy, anche. Si veste bene, è sicuro di sé, è molto ‘cool’ - uno da Skybar, per intenderci, il locale più ‘in’ di Los Angeles in questo momento, dove ti fai un'ora di coda per poi sentirti dire che non puoi entrare. Meno male che ero con lui quando ci sono andata. Dicevo, Robert ha un sacco di qualità, è anche gentile, romantico, attento. È mediamente intelligente, colto. Non arriva mai in ritardo, ti fa i regalini, paga sempre lui la cena. Eppure la magia si è già spenta. Ci ho riflettuto parecchio, chiedendomi cos’hanno, questi americani, che non va. Finché ho avuto l’illuminazione: non hanno malizia. Sono troppo ‘plain’. Ci posso passare una notte, con un americano. Se proprio è uno allenato ce ne posso passare due, anche se è più probabile che  James Woods diventi gay, visto che non facciamo altro che uscire a cena. A proposito: volete sapere il segreto di James Woods? È superdotato. 
 
***
 
Jodie Foster ha fatto il gran rifiuto. Ha detto di essere impegnata con la regia di un film su Flora Plum, e l’ha detto con un’aria come se tutti sapessero chi è Flora Plum, mentre dieci minuti dopo che l’ha spiegato nessuno se lo ricordava già più. In ufficio abbiamo passato tutta la settimana a discutere delle attrici che potrebbero prendere il suo posto. Secondo me, nessuna. Secondo Dino, chiunque. Il problema è serio, non solo perché è difficile far dimenticare la Foster al pubblico, ma anche perché poche accetteranno il confronto con lei. 
Dino, dopo aver visto centomila cassette con i provini di tutte le attrici di Hollywood e non (c’era anche la Bellucci, che Ridley dice avere l’espressività di una patata bollita), e dopo aver scartato via via quelle che non gli piacevano, è arrivato a questa rosa di nomi: Hilary Swank(!), Kate Blanchett(!!), Ashley Judd(???), Winona Ryder(!!!), Gwyneth Paltrow (?????????????) e Angelina Jolie. Io non ci ho messo becco perché nessuno ha chiesto la mia opinione al riguardo e anche se di solito la dico lo stesso, stavolta mi sono astenuta perché per me, tolta la Foster, una vale l’altra.
Ridley ha detto che gli va bene chiunque (siamo sempre in perfetta sintonia, anche se lui non lo sa) ma non Angelina Jolie perché non vuole lavorare con gente che ha problemi di droga ('aveva' problemi di droga, gli abbiamo fatto notare, ma non ci sente) e soprattutto non Ashley Judd, perché una che accetta di fare un film idiota come Double Jeopardy non dev’essere tanto intelligente neanche lei e lui non vuole lavorare con la gente stupida. Se va avanti di questo passo tra un po’ lavorerà da solo, anche perché la lista di attori con cui non vuole più lavorare è già bella lunga. Indovinate chi c’è in cima? Demi Moore. Ridley dice che è insopportabile, sempre in ritardo e che se la tira come una star (be’, lo è, ma quando me l’ha raccontato non ho avuto il coraggio di obbiettare). Prima in cima a questa lista c’era Russell Crowe (quando hanno girato il Gladiatore litigavano continuamente perché Russell s’impicciava di cose che non lo riguardavano e aveva un entourage stratosferico manco fosse il presidente degli Stati Uniti) ma poi hanno fatto pace e anzi stanno diventando addirittura amici, adesso.  
 
***
 
Se Ashley Judd fa Clarice Starling, allora Hannibal Lecter dovrà farlo Gatto Silvestro. Così si legge sul fax appena arrivato in ufficio, firmato da Thomas Harris.
Lo ritiro per darlo a Dino appena arriviamo a casa. La sua Mercedes con targa personalizzata DDL11 mi aspetta a motore acceso all’imbocco del vialetto del nostro bungalow. Sta passando un pullman pieno di giapponesi che scattano foto all’impazzata verso di me, ma non stanno fotografando me, bensì l’ingresso del nostro ufficio, perché anni addietro era l’ufficio di Alfred Hitchcock. È qui che Truffaut gli ha fatto la famosa intervista di cinquanta ore che è poi diventata uno dei più bei libri che abbia mai letto, Il cinema secondo Hitchcock, che se non l’avete letto, vi consiglio di farlo perché ne vale la pena. Dino e Martha sono già in macchina, lui sta leggendo il giornale. Salgo davanti.
La S320 blu attraversa il lot della Universal a lentezza esasperante. Per fortuna appena fuori dal cancello riprende una marcia normale. Stiamo tornando a casa De Laurentiis a pranzo. Oggi fa un caldo micidiale. Le palme sono immobili. Chris guida attentissimo alla strada, senza batter ciglio. Con la coda dell’occhio vedo Dino, dietro di lui, concentratissimo sulla Gazzetta. La moglie sospira. Non la vedo perché è alle mie spalle, ma capisco che sta per dire qualcosa.
“Ho trovato dove fare il party per le bambine,” dice.
“Ah, e dove?” chiede il marito voltando pagina.
“Nel parco della scuola.”
Lui non fa una piega. Io mi fingo rapita da un articolo su USA Today, per lasciargli un minimo di privacy. 
“Non è stato facile ma alla fine sono riuscita a convincere il preside. Gli faremo un bel regalo," continua Martha. "Ho già mandato gli inviti. Saremo in duecentocinquanta."
E Dino, imperturbabile, senza alzare gli occhi dal giornale: “Duecentoquarantanove, perché io non vengo”. 
Scoppio a ridere. (Lo so, non avrei dovuto, ma non sono riuscita a evitarlo.) Do un’occhiata fugace a Dino, che mi lancia uno sguardo complice e ride anche lui, prima di tornare al suo articolo. Poi mi giro verso Martha con un sorriso comprensivo. Ci vuole pazienza con quest’uomo e devo riconoscere che lei ne ha tanta. Proprio in questo momento Chris fa una frenata brusca ed entrambe urliamo dallo spavento. 
Dino non fa una piega, invece, continuando a leggere imperturbato. 
Beverly Estate. La Mercedes percorre la salita fino al grande cancello d’ingresso con il leone di pietra, lo oltrepassa e prosegue lungo il viale alberato. L’asfalto è ancora bagnato dall’acqua che le canne d’irrigazione hanno distribuito sul parco durante la mattinata.
“Vediamo ‘sto fax,” dice Dino entrando in casa e dirigendosi dritto verso il tavolo rotondo in salone senza salutare nessuno. Ha un bellissimo studio al piano di sopra, con una scrivania enorme e una parete a vetri che dà sulla piscina e da cui si gode la vista di tutta downtown, ma non lo usa mai. Proprio vero che chi ha il pane non ha i denti. Lo seguo e quando si siede gli passo il fax di Tom. Lui lo legge e ride. 
“Ma che c'hanno tutti contro Ashley Judd?” dice.
“Me lo chiedo anch'io. E comunque a Tom non va bene nessuno, persino di Jodie Foster dice che nel Silenzio degli innocenti brillava alla luce di Anthony Hopkins.”
“Infatti ha ragione.”
Siamo ancora in alto mare con la scelta dell’attrice. Gwyneth Paltrow vorrebbe fare questo film a tutti i costi, ma nessuno a parte Dino la vuole (non so cosa sia successo nel frattempo, visto che inizialmente solo io avevo messo il veto, anche se nessuno lo sapeva a parte Dino). Angelina Jolie vorrebbe farlo pure lei, e lo stesso Winona Ryder a Kate Winslet. La Swank ha detto di no, invece, perché non se la sente di mettersi in competizione con Jodie Foster, cosa che sarebbe perfettamente comprensibile anche per tutte le altre. Kate Blanchett accetta ma solo se cambiamo il nome della protagonista. Dino ha provato a prendere in considerazione la cosa, ma Tom Harris gli ha mandato un fax dicendo che se cambiavamo il nome di Starling lui si chiamava fuori.
Dino mi restituisce il fax. Lo metto nella valigetta.
“Senti bella, hai letto lo script che ti ho dato ieri?” 
“Sì dottore.”
“Com’è?”
“Orrendo.”
“Okay, mettiamoci a lavorare, allora.”
“Non vuole neanche sapere di cosa parla?”
“Eh, no, se è orrendo, che me lo dici a fare?”
“Ma magari a lei piace.”
“Mi stai offendendo?” dice lui, ma in tono affettuoso.
“Certo che no, però insomma, a me non piaceva neanche quello di Ferrini.”
“Nemmeno a me, infatti lo sto facendo riscrivere quel copione.”
“Sì ma a lei non faceva così schifo come faceva schifo a me.”
“Va beh, dimmelo allora, dai!” taglia corto lui, avendo capito che così facciamo prima: “Di che parla?”
“È la storia di un gruppo di ragazzi che crescono insieme e poi prendono ognuno la propria strada, ma a un certo punto poi si ritrovano per un funerale e…”
“Che è, il remake del Grande freddo?
“No, questo ha un taglio più psicologico e un respiro meno ampio. Non ci sono scene corali. E anche la struttura è diversa, circolare, si apre con un vecchio che racconta un episodio…”
“Va beh, ho capito, un art-movie. Non mi interessa. E poi lo sai che non mi piacciono i funerali. Dai, mettiamoci a lavorare.”
A volte penso che potrei non leggerle nemmeno, le sceneggiature. Basterebbe dire che non mi piacciono. Pensate quanta fatica risparmiata. Il fatto è che ho sempre paura che mi sfugga il capolavoro del decennio, anche perché sono tutte opere di grandissimi sceneggiatori.
Mentre lavoriamo, suona il telefono. È la linea personale di Dino. Hanno almeno 10 linee in casa e su tutti gli apparecchi ci sono le iniziali dei membri della famiglia con i relativi numeri e la lucina corrispondente che si accende. 
“Elizabeth, guarda se è per me.”
Guardo. “Sì doc, è per lei.”
“Ti dispiace rispondere tu? E non stare mezz’ora al telefono.”
Vorrei precisare che non sono io che sto al telefono ma gli altri che mi ci tengono, ma sarebbe inutile.  Sollevo la cornetta. 
“Hallo? Chi parla? Prego? Mi scusi, non si sente niente…”
“Sarà Tony Hopkins,” dice Dino.
“Ah, ciao Tony, sì è qui, te lo passo subito!”
Dino mi mostra i palmi per dire ‘Hai visto che avevo ragione?’ e prende il telefono. Una conversazione velocissima in cui Dino dice solo ‘yes yes, sure, sure, yes, no problem’, e riattacca. Gli chiedo cosa gli abbia detto Hopkins.
“E che ne so,” risponde. “Parla pianissimo, Tony. Non si capisce niente. Gli dico sempre di sì sennò facciamo notte.”
 
***
  
In ufficio. Sto intrattenendo Chris Solimine, il co-writer di Marco Polo, in attesa che Dino sia pronto a riceverlo. Di solito si occupa Shirley degli ospiti in attesa, ma Chris è bello, giovane e talentuoso, e in questi casi intervengo io. Peccato che lui non mi degni di uno sguardo. In questi giorni è ospite di Konchalovsky, che ha una casa in tutte le capitali del mondo e quindi anche qui a Los Angeles che è la capitale del cinema. Stanno lavorando alla nuova stesura del copione - la dodicesima, se non erro. 
“Vuoi un caffè?” gli chiedo gentilmente.
“No, grazie, non bevo caffè,” risponde lui stitico. Sarà che è newyorkese e lassù sono piuttosto spicci, ma qui si rasenta la scortesia.
Lo lascio seduto alla mia scrivania e faccio un salto veloce nell'ufficio di Scott.
Ehi, psst,” chiamo a bassa voce dalla soglia della porta. Lui alza lo sguardo dal romanzo di fantascienza che sta leggendo. Chris Solimine è gay? gli chiedo.
Perché dovrei saperlo? risponde acido. 
“Secondo me è gay,” dico, e torno di corsa nel mio ufficio. Solimine è in piedi sulla soglia, piuttosto nervoso. 
“ELISABETTA!” Dino. A parte che sono qui a un metro e lui lo sa quindi che bisogno c’è di urlare, ma poi c’è l’intercom, un minimo di forma almeno quando c’è gente in ufficio, che diamine! 
ARRIVO!! rispondo. Poi sorrido a Chris: “Sei pronto?” 
Lui annuisce. Lo porto nell’ufficio di Dino e lo faccio accomodare in una delle quattro poltrone davanti alla megascrivania – che Dino dice sia appartenuta a Napoleone. Io mi siedo in una poltrona di fianco lasciandone una vuota tra noi, mi sfilo le scarpe e incrocio le gambe stile pensatore birmano.
“Allora Chris,” esordisce Dino buttando il copione di Solimine nel cestino, “questa roba che hai scritto qui, non va bene.” 
Chris deglutisce e tira un respiro come uno che stia cercando di allontanare una crisi di panico. Gli sorrido per confortarlo. Non tutti sono abituati ai modi di Dino. 
Dino gli spiega tutto quello che secondo lui non funziona, poi gli dice che può andare senza fargli dire neanche una parola. 
“Tutto bene?” gli chiedo mentre torniamo un attimo nel mio ufficio. 
“ELISABETTA, QUANDO L'HAI MANDATO A CASA VIENI QUI, PER PIACERE!” 
“SI’ DOTTORE!” E a Chris: “Adesso lo vuoi quel caffè?” 
Mi servirebbe più un calmante, risponde lui. 
“Addirittura!
Non è tanto per i modi, quanto che non sono d'accordo con quello che ha detto sul viaggio in Tibet…” 
“Ma come no? Sono venti pagine completamente inutili.” 
“Beh, sono spettacolari e…” 
“C’è già il viaggio da Venezia alla Cina che è spettacolare. Considera anche i costi. Non servono altri paesaggi.” 
“Sì ma io pensavo…” 
“Senti, non pensare. Dino ti ha detto quello che non vuole. Tu toglilo e basta.” E sono stata fin troppo gentile. ‘sto finocchio!  
 
***
   
C’è Steven Zaillian. Sta scrivendo. Dino è dovuto andare a una riunione urgente e mi ha detto di tenerlo a bada nel suo ufficio. Gli ho chiuso la porta e lo sto lasciando in pace, ma c’è un pensiero che mi tormenta: la murena. Una scena splendida che nell’ultimo draft è sparita. Non posso non approfittare dell’occasione per chiedergli perché. 
Toc-toc. 
“Sì?”
“Steven, posso?”
Quando entro, mi guarda come se l’ufficio fosse suo e davvero io dovessi chiedere il permesso di entrare. Si è seduto al tavolo rotondo delle riunioni. 
Mi prendo una sigaretta dal portasigarette accanto al suo script e me la accendo con un fiammifero che recupero nel cassetto della scrivania di Dino.
“Posso chiederti una cosa?” dico appoggiandomi al bordo del tavolo.
“Certo,” dice lui guardando la mia mano con la sigaretta accesa tra le dita come se fosse una granata.
“Perché hai tolto la scena con la murena?”
“Non mi piace,” risponde ridendo. Cosa c’è da ridere?
“Ma piace a tutti,” obietto. 
“Lo so, lo so. Ma ho di meglio.”
“Sì, certo, Cordell che tira fuori la pistola dal cassetto e spara, magari,” ribatto con sarcasmo, pentendomene immediatamente. Lui non se la prende. È molto sicuro di sé, e ci può anche stare, visto che è lo sceneggiatore più pagato del mondo.
“Vedrai, vedrai,” dice alzandosi e andando verso la porta, per farmi capire che devo uscire. Mi sta congedando. E per farmelo capire, mi fissa da dietro quegli occhialetti da genio con la montatura blu. Guardo per un attimo la sua testona di capelli folti e neri. Se ci sono dei pensieri, lì dentro, è comprensibile che facciano fatica a uscire. 
 
Post scriptum: Steven quel giorno doveva essere di cattivo umore, o avere molta fretta. In seguito ho avuto modo di conoscerlo meglio e al di là dell'incontestabile talento, ci tengo a dire che è un uomo adorabile, molto cortese e di grande sensibilità. Pensate che è l'unico scrittore che si sia mai preoccupato sua sponte di non mandare materiale a Dino dopo le cinque del pomeriggio per non costringere me a lavorare la sera fino a tardi. L’unico.
 
***

 “Hai chiamato Rick Nicita?” Dino, dalla sua megascrivania. Nicita è l’agente di Anthony Hopkins. 
“Sì dottore, sta arrivando.”  
“Eh, meno male.” Dino è nervoso. Ha un problema con le gross participations e non sa come risolverlo. Le gross participations sono delle quote di partecipazione ricavate dall’incasso lordo di un film. Ne possono avere diritto in diversi gradi e a seconda della posizione il produttore, il regista e lo sceneggiatore, ma a volte anche lo scrittore del romanzo da cui è tratto il film e anche un attore, se è molto quotato. Nel caso di Hannibal, lo studio mette a disposizione un trenta per cento dell’incasso lordo da dividere tra i ‘talents’, di cui Dino si becca il 10%, Ridley il 10% e Steven il 2,5%. Rimane un 7,5% che dovrebbero essere distribuiti tra Tom, a cui Dino ha promesso il 10% ancora l’anno scorso, e Anthony Hopkins, che accetta di fare il film per 10 milioni di dollari anziché 12, ma vuole il 10% anche lui. 
Se la matematica non è un’opinione, e nel mondo del cinema non lo è, manca un bel 12,5% per accontentare tutti. Come fare? Dino non può certo rinunciare al suo 10% visto che il film lo sta facendo lui. Il problema è che nessuno vuole rinunciare alla sua percentuale. Ci abbiamo provato con Tom Harris stamattina e ha detto che non ne vuole nemmeno sentir parlare.
Dino ha fissato una riunione oggi con Nicita per convincerlo a rinunciare alla sua quota in cambio di un altro milione di dollari, 11 contro i 10 che già aveva accettato. Ma Rick sa che senza Hopkins non c’è film, quindi ha un grande potere contrattuale. Non è una negoziazione facile. 
“Chiama l’agente della Jolie,” aggiunge Dino. 
“Già fatto, non c’è, ho lasciato un messaggio in segreteria.”
“Allora chiama la Jane… come si chiama?”
“Jane Berliner, l’agente di Julienne Moore?"
“Brava, sì lei.”
La chiamo. Non c’è, lascio un messaggio anche a lei.
“Ho lasciato un messaggio.”
“Neanche lei, ma che fanno questi tutto il giorno? Qui siamo solo io e te a lavorare.”
“Sì, appunto. Sono capaci di non aver neanche ancora letto il copione.” Gli agenti leggono sempre i copioni prima di proporli agli attori che rappresentano. Una cosa ridicola, secondo me.
“Elisabetta, dì a Chris di farmi un caffè, per piacere.” 
“No.”
Dino mi guarda stranito. “Come no?”
“No perché ne ha già bevuti troppi stamattina. A me dispiace che lei sia nervoso, ma le fanno male tutti quei caffè. Beva qualcos’altro.”
“Ma che mi prendo!” comincia a urlare lui “Non mi piace niente, dai Elisabetta, non farmi perdere la pazienza! CHRIS!! CHRIS!!”
“Chris non c’è, è andato a consegnare una busta a Stacey Snider,” lo informo con aria trionfante. “E non c’è neanche Shirley.”
“SCOTT!!”
Un batter di ciglia e Scott appare sulla soglia. “Devo chiudere la porta?” domanda. Quando io e Dino lavoriamo in ufficio chiediamo di chiudere la porta per non sentire rumori. Anche se a volte non stiamo lavorando ma spettegolando, tipo ieri quando gli ha chiesto di chiuderla perché mi stava raccontando la sua disastrosa cena a casa di Ines Sastre (tra l’altro ha detto che era convinto fosse una ‘bella figliola’ mentre dal vivo è brutta come il peccato). 
“No, no, lascia aperta la porta, senti qua, fammi un caffè, per piacere.”
“Subito,” risponde il fedelissimo, schizzando a fare il caffè al capo. 
Mi appoggio al bordo della scrivania e incrocio le braccia. “Sbaglio o il dottor Koblin le ha detto che ha la pressione alta e dovrebbe diminuire i caffè?” chiedo. È incredibile che Dino non badi alla sua salute, e dire che è pure ipocondriaco.
“Sbagli,” risponde lui, ostinato.
“Le ha anche fatto tenere l’Holter per 24 ore, sbaglio anche su questo? Si è anche lamentato di non essere  riuscito a dormire con quell’aggeggio attaccato al petto.”
“Sì ma poi avevo ragione io, non ce l’avevo alta.”
“Sì che ce l’aveva alta!”
“Ma non così alta come diceva lui.”
“Sempre alta però.”
“Va beh, avevamo ragione metà io e metà lui.”
Tiro un altro sospiro. A volte vorrei che qualcuno le registrasse, queste nostre conversazioni. Sembriamo Stanlio e Ollio. 
Suona il telefono. “Guardi che è la sua linea, risponde lei?” 
Lui prende la cornetta. “Hallo.” Dino non dà un tono interrogativo ai suoi ‘hallo’. Piuttosto un tono concessivo. È Jane Berliner che restituisce la chiamata. Dino le chiede a bruciapelo se ha deciso il prezzo della Moore, poi ricordandosi di non aver anteposto neppure un saluto alla domanda, aggiunge frettoloso ‘how are you, by the way?’ Dal tempo che passa prima che scoppi a ridere, capisco che la Berliner gli ha già detto la cifra senza perdersi in convenevoli. 
“Quando hai intenzione di cominciare a ragionare, il mio numero lo sai,” dice lui quando finisce di ridere, e sbatte giù il telefono. Poi mi guarda: “Sono pazzi questi agenti.”
Scott arriva col caffè, lo posa con cura sulla scrivania, sorride e se ne va. Intercetto la tazzina prima di Dino e vado nel suo bagno personale in suite, poi torno e la rimetto sul piattino. Dino allunga la testa e ci guarda dentro come se si aspettasse di trovarci uno scarafaggio. 
“Ci hai messo dentro qualcosa?”
“No, ne ho buttato via metà. Visto che lei e Koblin avevate ragione metà per uno…”
“Va beh, va’,” sospira lui, e si beve la sua mezza tazzina di caffè. Non so se per merito mio o per sfinimento, ma mi sembra già più tranquillo.
Quando arriva Rick Nicita, Dino lo accoglie a braccia aperte. “Rick, my dear friend!” Fa sempre così quando vuole ottenere qualcosa da qualcuno. E spesso funziona. 
 
Inizio febbraio
 
Proiezione di U-571. Mi tocca. Non l’ho ancora visto, e non è che ci tenga, a vederlo. Un film sui sottomarini ambientato durante la Seconda guerra mondiale. Come se non ne avessimo mai visto uno. Dino litiga sempre col regista, Jonathan Mostow. Quando John entra nel suo ufficio, Chris si alza dal desk e va a chiudere la porta, perché sa che di lì a due minuti Dino comincerà a urlare. Il che si verifica immancabilmente per i più svariati motivi, dalla richiesta di John di tornare a Malta a rifare una scena – l’accordo è stato: ‘La scena la rifai all’isola di Catilina, di fronte a Santa Monica’ -, ai soldi che John si è spupazzato in limousine e champagne – Ma erano i soldi avanzati dagli 80 milioni di dollari messi a disposizione per il film, avevo tutto il diritto di spenderli!’ ‘Tu non hai nessun diritto!’-. Alla fine di queste rilassanti conversazioni, John esce sempre a testa bassa, percorre in silenzio il corridoio, attraversa la hall e si dilegua, senza salutare nessuno. Dino invece rimane seduto sulla sua poltrona col sorriso sulle labbra e i piedi sulla scrivania. ‘Eh, questi registi, se non stai attento ti si mangiano!’ dice sempre, mentre si accende l’immancabile sigaro della vittoria.
U-571 è una palla micidiale – facce spaventate, rumori di bombe che scoppiano fuori, colpi al sottomarino, facce spaventate, rumori di bombe che scoppiano fuori, colpi al sottomarino -, ma non posso alzarmi e andarmene, anche perché ci sono tutti quelli che ci hanno lavorato, che ormai conosco benissimo, e non sarebbe carino. Dopo due infinite ore le luci si accendono e cominciano a formarsi i gruppetti di scambio convenevoli. Peter Donen, che ha curato gli effetti speciali, fa da protagonista finché non arriva John. Sta spiegando a me e ad altre due o tre persone che l’idea dei sottomarini che s’incrociano è sua. Gli faccio i complimenti perché è la scena più bella del film. Mi vengono in mente le statuette di moglie e figlio che Massimo teneva in tasca nel Gladiatore, ve le ricordate? Era un'idea azzeccatissima, senza la quale la storia avrebbe perso molto, e non era né di Ridley Scott né dello sceneggiatore David Franzoni; era del montatore Pietro Scalia (me l'ha detto lui). Ed ecco il regista: maglioncino di lana sudato, jeans, occhialoni, John si avvicina col suo fisico tarchiatello e i capelli radi e unti, e stringe la mano a tutti. Mi fingo impegnata con una chiamata al cellulare per evitare che stringa anche la mia. 
“Qui dentro non prende,” mi dice Peter mentre fingo di parlare con qualcuno. 
“Ah infatti mi sembrava…” dico mettendo via il cellulare. Che figura di merda. Per fortuna sono tutti così concentrati a fare i complimenti al regista che non sembrano averci fatto caso. John non è bello da vedere come Ridley, non ha neppure metà del suo charme, ma ha talento. L’avete visto Breakdown? Un gran film, e costato niente, per di più. L’ha scritto lui, oltre a dirigerlo, ha scelto lui gli attori, ha fatto tutto lui. Dino ci ha messo solo i soldi e il fiuto sovrumano – perché ammettiamolo, ci vuole quel tipo di fiuto per dare fiducia a uno così. Breakdown è un vero gioiello, e a chi fa un film come quello si può perdonare di averne fatto uno noioso come U-571. Che uscirà il 21 aprile, e secondo me non incasserà nemmeno la metà di quello che Dino e la Universal si aspettano. 
 
***
 
È mezzogiorno. Sono nel mio ufficio e sto parlando con Robert. Stamattina aveva un appuntamento con un cliente qui nel lot degli Studios e ne ha approfittato per venire a vedere dove lavoro. Poi andremo a pranzo insieme. (Meno male che quando lo vedo poi il giorno dopo non mangio perché altrimenti a furia di pranzi e cene potrei pesare 100 chili, ormai.) 
Nonostante il nostro bungalow fosse accanto a quello del suo cliente, il povero Robert ci ha messo un sacco di tempo a trovarlo, perché i numeri civici non sono in sequenza. Il lot è organizzato come una piccola città, con i nomi delle vie tipo Spielberg Drive, Main Street ecc. e con i bulgalow numerati. Quindi uno si aspetta che dopo il 5186 ci sia il 5188. E di solito è così, ma non sempre, e non nel nostro caso, perché Dino, quando si è trasferito qui, si è accorto che non gli piaceva il numero civico e se l’è fatto cambiare. Dino è superstiziosissimo. Non farebbe mai la prima di un film un venerdì 13, per esempio, ha in orrore il viola, e fa un sacco di altre cose ridicole che vi risparmio, tra cui le somme delle unità che compongono un certo numero per controllare che non dia un numero che non gli va a genio (questo lo faccio anch’io). Con il civico del bungalow di Hitchcock è successo proprio questo: le somma delle quattro cifre che lo componevano dava 13. Mai e poi mai Dino   ci si sarebbe trasferito, nemmeno se 1 + 3 faceva 4. Niente da fare. Il solo fatto di passare per il 13 rendeva impossibile occupare gli stessi uffici di uno dei più grandi geni del cinema di tutti i tempi. Per fortuna la Universal ha acconsentito a cambiargli il numero civico. La somma delle quattro cifre ora va bene (5195, la cui somma fa 2, che io nemmeno a pagamento me lo terrei), peccato che la gente non riesce a trovarci. 
Mi hanno raccontato che una volta, quando gli uffici della De Laurentiis Company erano sulla Wilshire a Beverly Hills, Dino ha chiamato un prete a far benedire i locali perché diceva che erano iettati. Per l’occasione avevano dovuto tirar giù tutti i poster di film ‘equivoci’ dal muro, tipo quello di Body of Evidence con Madonna.
Ma torniamo a noi. Robert oggi indossa un completino cachi di Cerruti che gli sta una meraviglia. Ha lasciato la camicia bianca rigata fuori dai pantaloni e la giacca aperta. Se non fosse americano…
 
Metà febbraio
 
“ELISABETTA!!”
“Dica dottore.” Istantanea. Non ha fatto in tempo a finire di urlare il nome che sono accanto alla sua scrivania.
“Ah, sei qui, brava,” dice sorpreso come se fossi spuntata fuori dal cassetto dove tiene i sigari. “Senti un po’ angelo mio.” Vuole chiedermi di fare qualcosa che esula da ciò che sono pagata per fare. Sicuro come l’oro, perché sono gli unici casi in cui divento improvvisamente un angelo. “Tu lo sai che Tullio Kezich sta scrivendo un libro sulla mia vita.”
“Certo che lo so. Ho insistito io per farglielo fare con Feltrinelli invece che con Mondadori, si ricorda?”
“Ah, sì, giusto. Allora, ascoltami bene: Tullio vuole che scriva un pezzo di mio pugno da mettere in apertura, ma tu lo sai che io non sono uno scrittore. Tu invece sei una scrittrice e sicuramente--”
“Okay okay ho capito. Cosa ci vuole scrivere?”
“Eh, se sapessi cosa ci voglio scrivere, non lo chiederei a te.”
“Ah, non si riferiva solo alla forma, vuole anche il contenuto.”
“Eh, e certo. Non è che ti viene in mente qualcosa?”
“Me lo faccio venire. Quanto lo vuole lungo almeno, questo me lo sa dire?”
“Massimo una pagina, ma anche meno. Anzi meno, meno. Dieci righe sono più che sufficienti. Ma deve sembrare che l’ho scritto io, mi raccomando. Tullio è svelto, quello se ne accorge che l’hai scritto tu se non stai attenta. Pensaci qualche giorno, vedi se riesci a inventarti qualcosa.”
“Okay.” 
Dieci righe che devono sembrare scritte da Dino De Laurentiis, una grande leggenda del cinema. Semplice come bere un bicchier d’acqua, vero? Vado nel mio ufficio, stacco il telefono e mi metto al lavoro. Dunque, cos’è che contraddistingue Dino? Il coraggio, la grinta, la passione. Cosa caratterizza la sua vita? Gli alti e i bassi, le discese ardite e le risalite, come diceva qualcuno. Cosa gli piace? Il cinema e il calcio. 
A proposito di calcio, mi viene in mente un aforisma che ho scritto anni fa: la sensazione di stare al mondo è la stessa che si prova uscendo dallo stadio quando la propria squadra ha perso. Se riuscissi a renderlo meno negativo, potrei usarlo. Avevo registrato i miei aforismi alla SIAE, in effetti, ma nessuno se ne accorgerà, e in ogni caso credo sia consentito copiare se l’autore è d’accordo. 
Poi, vediamo… quali sono i suoi punti deboli? È superstizioso, ma su questo meglio sorvolare. Cosa vuole il biografato da una biografia autorizzata? Che tutti pensino bene di lui, ma non troppo, altrimenti sembra tutto finto. Dino tuttavia… è diverso. A lui non importa proprio niente di quello che la gente pensa di lui. Quindi tanto vale che pensino quello che penso io. Deciso. Scriverò come lo vedo io. 
Mezz’ora dopo (mezz’ora, capite perché Dino mi adora?) sono dal boss con queste righe: 
Sono convinto che la vita vada affrontata con ironia. Senza paura. Ho sempre messo me stesso in tutto quello che ho fatto. Non tutto mi è riuscito. A volte ti senti come quando esci dallo stadio dopo che la tua squadra ha perso. Ma altre volte, quando meno te lo aspetti, è come vincere i mondiali. È il gioco, è la grande sfida della vita. Una biografia su di me? E che gli raccontiamo a questa gente? Ci ho pensato un po’ su e mi sono detto: ma sì, raccontiamogli tutto. Facciamogli anche fare quattro risate, se capita. Affrontiamola così, la biografia, come la vita, che non è mai tutta rose e fiori, ma è il più incredibile dono che abbiamo ricevuto da Dio, e il nostro primo dovere è quello di viverla fino in fondo, per meritarcelo. Dino De Laurentiis. 
Resto in piedi accanto a lui mentre legge. Quando finisce, alza il viso verso di me e mi guarda per cinque secondi buoni, forse sei.
“Elisabetta, sei un genio,” dice. 
“Lo so.”
“È perfetto, sembra proprio che l’ho scritto io. Che affare che ho fatto, con te. Tu pensi con la mia testa. Toh, mandala subito a Tullio per fax, ma digli che l’ho scritto io, mi raccomando, e digli di non cambiare una virgola. È eccezionale questo pezzo che hai scritto.”
“Grazie dottore.” E ci ho pure messo mezz’ora, vorrei aggiungere, ma non ce n’è bisogno. È la velocità che mi ha fatto arrivare qui. Ringrazio Dio tra me per avermi dato questa qualità, senza la quale sarei ancora a Milano, chiusa in casa, a tradurre pallosissimi romanzi di autori il cui unico scopo è portarti al suicidio. Sono davvero fortunata. 
“Be’? Che aspetti? Mandaglielo subito, vai.” 
Dino riesce sempre a rovinarmi tutta l'atmosfera con le sue urgenze.
 
***
  
Sono alla guida del cart, nel lot della Universal. Sto accompagnando Ridley Scott da Stacey Snider, il presidente della Motion Picture, ovvero il numero 2 della Universal dopo Ron Meyer (che guarda caso è ebreo, come tutti quelli che fanno il cinema a Hollywood). Siamo un po’ in ritardo. Ridley consulta pigramente l’orologio al polso destro. Lo porta allacciato talmente stretto che gli si solleva la carne intorno. È un orologio semplice, col quadrante nero, i segmenti bianchi al posto dei numeri e il cinturino di cuoio. Anch’io porto l’orologio a destra – il mio però è un Cartier.
Ridley Scott. The duellists, Alien, Blade Runner, Black Rain, Thelma e Louise, GladiatorUn mito vivente, talento puro. Seduto qui di fianco a me sul cart, pantaloni chiari di cotone, T-shirt nera anonima e giacchetta di jeans - tutto di marca sconosciuta -, capelli biondo-rossicci al vento, io e lui soli. Potrei rapirlo. Potrei minacciarlo di guidare dritta nel fosso ai margini del lot se non accetta di sposarmi o almeno di prendermi come sua assistente, segretaria perfino. Oppure potrei prima provare a pregarlo di portarmi a Londra con lui, poi, se dice di no, fingere di perdere il controllo del cart per il dispiacere e schiantarmi nel giardino di Spielberg qui dietro. Magari così lo convinco. Tanto cammina già male perché ha un problema a un ginocchio, quanto posso peggiorare la situazione? 
Quasi presagendo le mie intenzioni, Ridley si tocca la gamba e fa una smorfia di dolore. L’ho sentito dire a Dino che a marzo si deve operare.
“Come va il tuo ginocchio?” gli chiedo, per educazione.
“Non bene.”
“Ma come mai non guarisce? È un po’ che vai avanti così.”
“Il tennis. Dovrei smettere di giocare ma non ci riesco,” risponde con un sorriso nostalgico, come se avesse nominato una donna amata e perduta. 
“Ah, giochi a tennis? Bello. Sei bravo?”
“Abbastanza, sì. È la mia passione, non potrei mai rinunciarci.”
“Ma col ginocchio così come fai?”
Lui ride, massaggiandosi il ginocchio: “Gioco lo stesso e mi tengo il dolore”.  
Beh, è una scelta. La scelta di Ridley Scott. 
 
***
 
Ha piovuto. Le strade sono completamente allagate, agli incroci l’acqua arriva al mezzo metro e si formano delle code interminabili perché bisogna attraversarli piano piano cercando di restare il più possibile ai margini dell’immensa pozzanghera. Quando arrivo in ufficio, tardi, trovo un messaggio di Anthony Hopkins sulla mia segreteria. La sua voce sulla mia segreteria! Bassa, suadente, ferma, impeccabile, con quell’accento inglese… Ciao Elisabeth, sono Tony Hopkins. Mi chiedevo se potresti farmi avere una trascrizione fonetica del passo di Dante citato nello script, ripeto, una trascrizione fonetica del passo di Dante citato nello script a pagina 54. Grazie, a presto. Come cavolo gliela procuro la trascrizione fonetica? Questo la vuole in inglese poi, che diavolo ne so io?
“Vai tu a casa sua e insegnagli come si pronunciano le parole che gli servono,” suggerisce Dino quando vado nel suo ufficio ad esporgli il problema. A volte detesto il suo senso pratico. 
“No, a casa sua non ci vado, non ci penso proprio.”
“Elisabetta mia, ascoltami bene-” 
“No, dottore, gliel’ho detto, Tony Hopkins e Ridley Scott mi mettono soggezione, lo sa.” È la pura verità e non posso farci niente. Per me sono due miti quasi d’infanzia. 
“Ma ci dovrai lavorare fianco a fianco per quattro mesi!”
“E allora?”
“Come e allora? Fammi telefonare a Tony, va’.”
“Aspetti-” faccio per fermarlo, ma lui ha già messo il viva voce e schiacciato il pulsante col numero di Hopkins. Risponde la segreteria, come sempre. Tony non risponde mai al telefono e non ha nessuno in casa che risponde per lui. Sente prima chi è, poi se gli va richiama. Abita alle Pacific Palisades di Santa Monica, un posto magnifico. Anche il montatore, Pietro Scalia, abita lì. 
This is Tony Hopkins, thank you for calling, please leave a message and I’ll call you back.
“Tony! How are you my friend?” lo saluta Dino tutto allegro.
“Dottore, è la segreteria.”
“Ah. Ma c’ha sempre la macchinetta?”
“Magari stavolta davvero non è in casa.”
“Tony, Dino here, I need to talk to you.” Attende un attimo, poi guarda me: “Non risponde”.
“La richiamerà, allora.”
Dino riavvicina la bocca al microfono. “Tony, call me back!” E chiude. Torno nel mio ufficio a pensare a un modo di risolvere questo impiccio.
Un’ora dopo, Dino dal suo ufficio:“ELIZABETH! TONY HOPKINS FOR YOU!” Urla perché fa prima che a chiamarmi con l’interfono. Si può essere così pigri?
“GRAZIE DOTTORE, ME LO PASSI PURE!” 
“COSA DEVO PREMERE?”
“1-7-1-6!” 
Me lo vedo, Dino, a comporre le quattro cifre, indice, medio, anulare, di nuovo indice.
“Allora, 1-7-1-6… Hallo. Hallo. Ah, Tony, you still there? Just a moment. ELISABETTA! COME CAZZO SI FA A PASSARE ‘STA CHIAMATA?”
Corro da lui, più che altro per non far sentire in imbarazzo Tony. 
“Deve schiacciare ‘transfer’ e poi 1-7-1-6, dottore, gliel’ho fatto vedere mille volte.”
“Va beh, toh, rispondi da qui. Ehi Tony, still there? Elizabeth is here, she wants to talk to you.” Lo fulmino con lo sguardo. Lui mi passa la cornetta ma la scrivania è così grande che il filo non è lungo abbastanza. Mi avvicino alla sua sedia.
“Hallo?”
“Hi, Elizabeth.” E poi silenzio. In paziente attesa di quello che non ho da dirgli. 
“Hi Tony, how are you doing?” Riesco a dirlo tutto intero senza incepparmi. Credo sia la prima volta. Sono sicura che Anthony Hopkins pensi che io sia un’idiota. Ogni volta che lo sento balbetto e non so cosa dire e faccio un sacco di errori in inglese. 
Mi traggo d’impaccio proponendogli di registrargli una cassetta con la mia voce.
“Ma vai da lui!” interrompe Dino spazientito. Sgrano gli occhi per dirgli ‘Ho già detto di no’ e lui posa il sigaro nel posacenere e mi prende la cornetta di mano.
“Tony, Tony… listen. I go to send Elizabeth to your house, she will read the page for you there, understand?”
Non so cosa risponde Tony perché Dino quando chiamano gli altri non mette il vivavoce, ma dall’espressione della sua faccia, la stessa di quando conclude un affare, capisco che Tony ha accettato la proposta. E io non posso farci niente.
 
Ventotto febbraio

Dino è in Italia, in visita alle locations, ovvero i luoghi in cui si gireranno alcune riprese del film. Prima a Firenze, poi a Roma. Tornerà il 10 marzo. È partito l’altro ieri, e già mi manca. Per fortuna mi chiama in continuazione. Dice che Firenze è bellissima, le location fantastiche, che Ridley conosce la città meglio di quelli che ci abitano e che gli sta facendo scoprire un sacco di cose. Io ogni volta che mi dà queste notizie corro da Chris, Shirley, Scott e John e gliele riferisco, e loro ogni volta mi guardano come se stessi descrivendo il rito d'accoppiamento delle tartarughe delle Galapagos. Pazzesco.

Ventinove febbraio (anno bisestile) h 11.00
 
Sono in ufficio a leggere un’insulsa sceneggiatura. Suona il telefono.
“Ciao bella.” La voce del padrone. Mogia. 
“Salve, dottore, come sta?”
“Male.”
“Come ‘male’?” Dino non dice mai ‘male’. Dice sempre ‘benissimo’. Mi balza il cuore in gola. “Cos’è successo?!?”
“Sono caduto dalle scale e ho sbattuto la testa, sono a letto e non mi posso muovere.” D’un tratto mi sento debole, e anzi, a ben giudicare, temo di stare per svenire. Ma non posso svenire prima di sapere cosa è successo a Dino.
“Co-come la testa?” riesco a chiedere.
Dino mi racconta la sua disavventura. Era con Branko Lustig, l’executive producer alias braccio destro di Ridley, e la moglie. Stavano scendendo le scale in albergo e lui è scivolato. Si è fatto tutta la rampa ruzzoloni. Quando è atterrato ha perso conoscenza e sanguinava dalla testa. Lo hanno portato di corsa in ospedale e si è ripreso quasi subito, per fortuna. Se l’è cavata con un paio di punti sopra all’occhio.
“Dottore, mi ha detto che non si poteva muovere! Mi ha fatto prendere un colpo!”
“E infatti non mi posso muovere. Devo stare a letto a riposare.”
“Ho capito ma è diverso da non potersi muovere.”
“Come è diverso? Non mi posso muovere dal letto.”
“Sì ma non potersi muovere significa non potersi muovere.”
“Eh, lo so. Infatti.” 
“Lei si può muovere, solo che è meglio che non mi muova.”
“Eh, e che differenza fa? Sempre a letto devo stare.”
“Va be’, lasciamo perdere. Quanto ci deve stare a letto?”
“Fino a domani.”
“E allora forza, se domani già la fanno uscire, cosa vuole che sia una notte in ospedale? Vedrà che passa in fretta!”
“Mica sono in ospedale. Sono in camera mia in albergo.”
Cazzo è pure in albergo!! 
“Dottore, lei mi farà venire un infarto.”
“Perché bella mia?”
“Mi ha detto che le hanno dato i punti, che era a letto e non si poteva muovere!! Pensavo in ospedale!”
“Io non ho mai detto in ospedale.”
Dio che pazienza. “Va beh. Chi c’è con lei?”
“Nessuno. Sono tutti a vedere le location.” 
Per fortuna Dino non vede la mia faccia e loro non sentono quello che gli sto augurando. 
“Capisco… be’ lei stia a letto e non si muova, che potrebbe avere un capogiro. Me lo promette che non si muove?”
“Okay. Ciao.” E chiude il telefono. 
Tiro dei respiri profondi per riprendermi dallo spavento. Dino è caduto. Poteva rimanerci secco. A quell’età, magrolino com’è. Poteva rompersi qualche osso. E anche se è andata bene, è evidente che si è spaventato. Pauroso com’è, poi! Quando si alza la mattina, dopo la ginnastica consueta passa in cucina e fa colazione con almeno una decina di medicinali diversi. E lo stesso la sera prima di andare a letto. Prende medicine per tutto, per dormire, per stare sveglio, per digerire, per andare in bagno, per la pressione, per la memoria, per integrare il ferro… potrebbe chiedere la sponsorizzazione di una casa farmaceutica. 
Ripassando nella mente la nostra conversazione, mi accorgo che non mi ha chiamata per lavoro. Mi ha chiamata per dirmi che si era fatto male. Forse si sente solo in camera. L’hanno abbandonato lì, e se prova ad alzarsi e cade di nuovo? Aspetto una mezz’oretta e lo richiamo.
“Dottore sono io.”
“Ehi, ciao bella.” Come se non ci parlassimo da ieri.
“Come si sente?”
“E come vuoi che mi senta? Rincoglionito."
“Ma va’, che è forte come un leone! Domani starà meglio di me.”
“Speriamo.”
“Senta, visto che non ha niente da fare, vuole che le parli del copione che ho letto ieri?”
“Quale, Caffè amore?” 
“Sì. È bellissimo, glielo racconto?”
“Okay.” 
La mezz’ora successiva io e Dino la passiamo al telefono, a parlare di un film strepitoso che purtroppo non vedrà mai gli schermi.
 
Due giorni dopo

  Dino sta guardando una partita in albergo, a Roma, e nonostante questo mi ha chiamata per darmi delle informazioni. Siamo al telefono da un quarto d’ora, perché lui continua a interrompersi per seguire il gioco in televisione. Non ce la faccio più. 
“[…] dì a Stacey Snider e a Kevin Misher che il meeting lo facciamo il 14, vedi tu a che ora, ma sappi che – Madonna che azione!
“Dottore…”
“Mamma mia… e chi sono questi? Uuuhhh…”
“Dottore… glielo metto in mattinata, va bene?”
“Incredibile… Eh? Sì, sì, anche perché alle tre di pomeriggio viene Scalia a casa mia, per forza in mattinata. VAI, VAI! FORZA, DAI, E INFILA ‘STA PALLA! GOOOOOOOOOOOOOOOL!!!!” 
Allontano la cornetta dall'orecchio, conto fino a dieci, la riavvicino.
“Alle nove di mattina va bene?”
“Eh, bravissimi. Hanno fatto un gol eccezionale, questi.”
“Bene, dottore, sono contenta per lei. Alle nove allora?”
“Sì, sì, okay, alle nove va benissimo. Adesso ascoltami bene.” Pausa. Quando fa la pausa, mi deve dire qualcosa di importante. Se invece dice ‘ascoltami bene’ senza pausa, posso anche non ascoltarlo che tanto non cambia niente. “Tu devi telefonare a Steven Zaillian, domattina presto, prima delle otto altrimenti lui va in ufficio, lo devi beccare appena sveglio, capito? Hai capito?”
Dino lo sa benissimo che ho capito, ma che non approvo questa sua mania di tirare la gente giù dal letto, tanto più che a volte lo fa fare a me, ed è davvero imbarazzante. Il povero Konchalovsky, per esempio, lo chiama sempre all’alba perché dice che poi non riesce a trovarlo. E quello ogni volta è in pieno sonno profondo e non capisce nemmeno quello che gli si dice. Lo so perché poi Andrei richiama sempre me per farselo ripetere.
“Dottore, almeno Steven me lo lasci chiamare in ufficio.”
“No, no, lo devi chiamare a casa, che è più disponibile, Elisabetta, bella mia, queste cose le devi imparare.”
“Uff, okay.”
“Io i più grandi affari sai dove li ho fatti?”
“A casa sua a tavola.”
“Brava, vedi che lo sai? Bisogna metterli a loro agio questi artisti, e quando sono belli rilassati… zac!, gli fai fare quello che vuoi tu!”
“Lo so, ma secondo me Steven non si sente rilassato quando lo butto giù dal letto.”
“Forse no, ma ancora non è abbastanza lucido per incazzarsi, visto che gli devi dire di eliminare il personaggio di Jack Crawford.”
“Come? Crawford? Ma tutti amano Crawford!”
“Sì sì, ma dobbiamo tagliare. E poi non serve a niente. Ci mettiamo il senatore Martin al suo posto.”
“Cosa? E dovrei dirglielo io?”
“Eh, per forza, se glielo dico io s’incazza.”
“S’incazzerà anche se glielo dico io!”
“Per questo ti sto dicendo di chiamarlo prima delle otto. Allora, ascolta qui bene cosa gli devi dire – E FAGLI UN FALLO, A QUELLA TESTA DI CAZZO! E SENNO’ PASSALA ‘STA PALLA!”
Dio mio. Che pazienza. Mi faranno santa.
 
Un giorno di marzo
 
Oggi è il compleanno del mio gatto Swan. Compie dodici anni. È la prima volta che non sono con lui a festeggiarlo e questo mi rattrista molto. Ho obbligato mio cugino a preparargli un bel pranzetto sostanzioso e succulento. È lui che si occupa dei miei due gatti maschi (le femmine sono qui a Los Angeles con me). Swan faceva le fusa al telefono. Mi manca tantissimo. Non vedo l'ora di portare qui anche loro due.  
Sono in ufficio ma non ho molto lavoro da fare, oggi. Per evitare che i pensieri tristi prendano il sopravvento, decido di guardare La Madonna della cesta di Correggio sul cd-rom della National Gallery. Mentre ravano tra le decine di custodie sul cassettone della mia camera, un cd-rom che non cercavo trova me: l’Inferno di Dante recitato da Giorgio Albertazzi!! Qui, in camera mia, nascosto tra il ‘Louvre’ e ‘Il museo ideale dal Trecento ai nostri giorni’. Vi rendete conto? Un colpo di fortuna incredibile! Aver trovato questo CD significa che non dovrò più andare a casa di Anthony Hopkins!!!
Sono così felice che sto saltando nel mio ufficio, da sola. Non ci volevo proprio andare a casa di Tony. Fosse stato a casa di Matt Damon allora ok, ci sarei andata pure a piedi. Mi sarei anche preparata il V canto a memoria. Ma Tony anche no. 
Lo chiamo e gli lascio un messaggio, facendogli notare che il CD potrà sentirlo tutte le volte che vuole mentre se vado io da lui non è che posso farlo tutti i giorni. Lui mi richiama dopo due minuti e mi dice soltanto: “Thank you very much, Elizabeth”. È un uomo gentilissimo.
 
Primo aprile
 
Ridley è tornato dalle Hawaii. Il 22 marzo era andato a vedere i maiali in Virginia, quelli a cui Lecter darà in pasto Verger vivo. Poi, visto che nel frattempo anche il problema attrice protagonista era stato risolto (la parte di Starling andrà a Julianne Moore), è partito per una vacanza. Invece di operarsi al ginocchio se n’è andato una settimana al mare come se le due cose fossero equivalenti. 
Anche Konchalovsky è tornato da New York, dove ha incontrato il co-writer di Marco Polo, Chris Solimine, e ha poi sottoposto il prodotto del loro incontro a Dino, stamattina. Il quale ha deciso di abbandonare il progetto di Marco Polo e di mettere Konchalovsky a lavorare su una sua idea per un film basato su un fatto di cronaca milanese che vorrebbe girare in Italia con un cast americano. The Woman with the Gun, ovvero La donna con la pistola, dovrebbe essere scritto dall’italo-americano Altieri, che ha lavorato 15 anni per Dino, e da Tessadri, un ex ingegnere a cui viene un'idea ogni dieci minuti; Andrei sarebbe soltanto regista. 
Ovvio che Andrei si sia un po' risentito, all’inizio. È partito con l’idea di scrivere e dirigere un quasi-colossal su Marco Polo e si ritrova un filmetto di cronaca italiana girato con pochi mezzi e scritto da altri. Nessuno sarebbe stato contento. Per quello urlava come un forsennato, prima – ho scoperto che i russi urlano tantissimo. Dino gli ha lasciato un giorno per riprendersi, e se non si riprende, peggio per lui. Non gli sta per niente simpatico Konchalovsky. Non capisco cosa ci lavori a fare. Quanto a Solimine, l’ha liquidato senza nessuna cerimonia. Anzi, credo che ancora non lo sappia, Chris, di essere stato liquidato. 
Dino si è fissato con questo film, che racconta l’omicidio del figlio di una barista da parte di un gruppo di malavitosi albanesi. Per un po’ ha cercato un regista italiano che potesse dirigerlo. Io gli avevo proposto dei nomi e devo dire che mi ha dato retta. Li ha contattati tutti, quelli che gli ho consigliato, Fabio Segatori, Marco Bechis… ma poi ha preferito usare Konchalovsky, visto che ormai l'aveva pagato per Marco Polo.  
  
Diciassette aprile
 
Non ci crederete, ma mi sono appena rivista U-571, il film più noioso di tutti i tempi. C’è stata la Premiere, stasera, qui al Mann’s Theatre di Westwood – l’uscita nelle sale è prevista per il 21, tra quattro giorni. Non potevo non venirci. Adesso sono alla festa dei vip che segue la proiezione, al Beverly Hilton Hotel. Magnifici tavoli apparecchiati in un salone immenso pieno di celebrità. 
Mi rendo conto che molti darebbero chissà cosa per essere al mio posto, ma a me delle celebrità non me ne frega veramente niente. Ero così già da piccola. Non ho mai avuto foto di ‘idoli’ appesi in camera, a parte una gigantografia di Mick Jagger davanti al letto, ma non perché era la voce dei Rolling Stones, ma perché è l’uomo più sexy del pianeta e quel poster mi conciliava il sonno. Questo per far capire perché,  mentre tutti sembrano divertirsi un sacco, io mi sto annoiando a morte. Ho sempre odiato le feste, anche questo fin da piccola. 
Non si direbbe, ma sono fondamentalmente asociale. 
Bill Paxton e Matthew McConaughey parlano e ridono come pazzi. Forse sono già ubriachi. Paxton è un ex portiere d’albergo. E McConaughey è… lui è il tenente Tyler del film. Adesso ha i capelli gialli, l’ultima volta che l’ho visto, a un’altra premiere ma non di un film nostro, li aveva rosa. Le donne impazziscono per McConaughey e devo ammettere che è parecchio figo, ma non ha neppure un millesimo del fascino che ha Tom Cruise, per fare un esempio che non sia il solito Matt Dillon. Cruise quando ti guarda ti fulmina. È incredibilmente charming, e non è così basso come dicono - è alto come me. 
Cerco Dino con lo sguardo. È seduto al suo tavolo a testa bassa e si guarda le mani con aria annoiata; il tenente della marina italiana Angelillo, seduto allo stesso tavolo due sedie più in là, ha l’aria di uno che vorrebbe trovare un argomento di conversazione ma non gli viene in mente niente. Meglio così perché Dino non ha nessuna voglia di chiacchierare. È appena tornato da un tour de force di tre giorni a Cannes, e a quest’ora vorrebbe soltanto essere nel suo letto a dormire. Tanto più che tra due giorni si parte per Firenze. Inizialmente si doveva partire tutti al 25, perché Ridley non può venire prima di quella data. Senonché salta fuori che il 20 c’è Roma-Lazio, partita imperdibile per Dino, che si aspetta di vincere lo scudetto che ha perso l’anno scorso. E così la partenza è stata anticipata al 19, senza curarsi di due cose fondamentali: 1) che il 20 a Firenze c’è Clinton e ci sarà un casino mai visto (anche se Dino va a Roma, quindi il problema ce l’hanno solo tutti gli altri e non lui); 2) che staremo tutti nella capitale fiorentina a far niente per una settimana, in attesa di Ridley. Quando si dice buttar via i soldi. Il bello è che Dino sta a fare le pulci a registi e sceneggiatori per un giorno di lavoro in più o in meno, poi paga tutti noi che ci spostiamo con lui per stare una settimana in un altro continente a fare un cazzo. Va beh, ne approfitterò per andare a casa dai miei gatti un paio di giorni. 
Ma torniamo alla festa. Non sapendo cosa fare, raggiungo il capo. 
“DOTTORE, TUTTO BENE?” Urlo, perché qui dentro c’è un baccano assordante.
“Oh, bella. Grazie a Dio sei qui. Non è che mi andresti a prendere un po’ di frutta? I camerieri sono spariti. Prendine un po’ anche per te, che non la mangi mai, la frutta.” 
“Certo dottore, vado subito.” 
Al buffet c’è una coda micidiale. Non resta che spingere. Davanti a me c’è Sampras, quello che gioca a tennis, brutto come il peccato, anzi molto di più perché il peccato ha pur sempre i suoi lati piacevoli mentre questo scommetto che non ne ha neanche uno. Dovrebbero togliergli il permesso di circolazione, perché è veramente fastidioso a vedersi. Nemmeno come antifurto al cancello di casa lo vorrei, uno così. Gli passo davanti con una spallata e lui fa per protestare, poi quando mi vede mi cede il posto con un sorriso. Almeno è educato. 

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