FINALMENTE SUL SET
Firenze, Venticinque Aprile – Cinque Giugno
Sono dannatamente sotto pressione. Firenze è una delle città più belle del mondo ma il set è difficilissimo perché in esterni i turisti impazzano e fanno perdere tempo, e in interni bisogna stare attenti a non rovinare niente. In questi giorni stiamo girando a palazzo Capponi, dove abbiamo allestito lo studiolo di Lecter. Il proprietario, il principe Capponi, gira come un avvoltoio per controllare che nessuno gli porti via nulla. Il catering è a Palazzo Corsini, in un salone tutto affrescato che vale da solo una visita. E i nostri trailers sono tutti parcheggiati sul Lungarno davanti al palazzo, in fila uno dietro l’altro per centinaia di metri. E dico centinaia.
I trailers, per chi non lo sapesse, sono le unità mobili in cui vengono ospitati i vari reparti tecnici che sono in stretto contatto con il set – parrucchieri, elettricisti, truccatori e via dicendo. Tutto quello che serve sul set, è nei trailers. Anche regista, produttori e attori hanno un trailer a testa a disposizione per i momenti di fermo o per riposarsi, anche se non ci stanno quasi mai. Ovviamente, maggiore è l’importanza del personaggio, più grande, confortevole e attrezzato è il trailer. Ridley, Dino e Anthony Hopkins hanno quelli più lussuosi, parcheggiati appena davanti al portone di palazzo Capponi – Julianne Moore non c’è perché non gira nessuna scena a Firenze. Seguono quelli dei truccatori, dei parrucchieri e dei costumisti, che durante le riprese sono i più frequentati. Poi quelli degli attori minori - un trailer in due, o in tre, o in quattro, e quelli dei reparti più strettamente tecnici, con tutto il materiale a bordo. L'insieme di tutte le persone che lavorano a un film si chiama crew, o troupe.
Il catering è messo a disposizione dalla produzione per tutti coloro che lavorano nel film. Il nostro viene da Roma con la roba fresca tutte le mattine, ma c’è chi dice che non sia gran che. Tony Hopkins però si serve ogni piatto due volte, è vero che è americano, ma se facesse proprio tutto così schifo se ne accorgerebbe anche lui.
Ovviamente il catering serve un pasto al giorno. Il secondo bisogna pagarselo col per diem, o giornaliero, una cifra che viene corrisposta oltre alla paga a tutti coloro che lavorano nel film. C’è chi lo usa davvero per pagarsi la cena, chi lo spreca alle macchinette delle sale giochi, chi se lo beve in birre e chi lo mette via. Io faccio parte di quest’ultimo gruppo. Coi per diem della settimana scorsa mi ci sono comprata un delizioso vestitino di Alberta Ferretti. Tanto le cene me le pagano sempre gli altri.
Quanto alla sistemazione letto, anche quella, come i trailers, varia a seconda della posizione occupata nella piramide degli addetti ai lavori. Il produttore, Dino, ha preso in affitto un’enorme villa quattrocentesca che si chiama Ex corde montis sul viale alberato che porta a piazzale Michelangelo. Ridley Scott ha un appartamento in centro. Tutti gli altri stanno in albergo, ma non nello stesso albergo: Tony Hopkins e Giancarlo Giannini a Villa Cora, un posto magnifico con una vista mozzafiato. Gli altri in alberghi via via meno lussuosi, hotel Gallery, hotel Lungarno, hotel Londra, fino a tecnici e assistenti che stanno al Ricasoli, un residence di prima categoria (che dovrebbe equivalere a un quattro stelle) dove hanno piazzato anche me. All’inizio mi sono molto arrabbiata. Poi ho pensato che la camera in più per gli ospiti mi faceva comodo per invitare mio cugino e che potevo usare il grande terrazzo dell’attico per prendere il sole, così mi sono tenuta l’appartamento senza fare tante storie. Dopotutto gli altri hanno solo una camera con bagno e cucinotto, quindi sono quella che sta meno peggio. E almeno siamo in pieno centro e vado a piedi dappertutto.
Ogni film che si rispetti ha un ufficio di produzione dove si fanno le riunioni, le telefonate, si mandano i fax eccetera, e dove tutte le sere si consegnano i giornalieri (dailies) al reparto moviola, ovvero le pellicole con le riprese del giorno che gli assistenti del montatore sbobinano e da cui stampano le copie di lavorazione. Il nostro production office è in un palazzetto moderno al numero 42 di viale Gramsci e occupa tre piani. Al piano terra ci stanno i props, quelli che si occupano degli oggetti che servono sul set, e il reparto costumi. Al primo ci stanno gli uffici degli executive, regista, produttori, montatore e relativi assistenti, nonché l’ufficio del publicist, del direttore della fotografia e del casting. Al secondo piano ci sono tutti quelli che non ho nominato finora, gli impiegati che fanno solo lavori d’ufficio, segretarie varie, direttore di produzione, coordinatore di produzione, addetti ai trasporti, addetti alle spedizioni, alle location, contabilità, effetti speciali eccetera.
Qui a Firenze abbiamo anche un servizio autisti, vengono a prenderci al mattino per accompagnaci sul set, poi ci riportano in albergo a fine giornata. Dino, Ridley e compagnia hanno l’autista personale e una macchina speciale – non una limo, in Italia non si usa. Poi ci sono alcune macchine a disposizione degli aventi diritto, e infine, in subordine, i pulmini. A me mi vengono a prendere in pulmino per portarmi in ufficio, ma poi dall’ufficio al set ci vado in macchina, e se non ho fretta chiedo di un autista in particolare, Lorenzo Sacchetti, che è una vera gioia per gli occhi. Quando è in servizio altrove, gli stronzi dei trasporti cercano di affibbiarmi qualcun altro, ma io preferisco aspettare che torni lui, anche se Dino si incazza perché arrivo in ritardo.
La quantità di persone che lavora a un film è strabiliante. Ovvio che dipenda anche dalla produzione. Hannibal ha alle spalle due enormi Studios che possono permettersi tutti i lussi del mondo. Questa è la punta della piramide del mondo del cinema, quella che in Italia chiamano ‘Hollywood’. Più di così non si può. Il budget per questo film è di 80 milioni di dollari, che equivalgono a 160 miliardi di lire; se considerate che non ci sono effetti speciali molto costosi, capite bene che è una cifra di tutto rispetto. In Italia per un film con nomi importanti si spendono circa 5 miliardi di lire. Fate un po’ voi il confronto. Di questi 80 milioni, tuttavia, ‘solamente’ 30 sono under the line, ovvero servono per fare effettivamente il film. Gli altri 50 (above the line) sono destinati a pagare i grossi nomi che vi partecipano.
Comunque, a parte tutto, lavorare in un film è dura. Si lavora sei giorni su sette, dodici ore al giorno. Arrivi alla sera che sei completamente sfatto e non ti godi nemmeno le prelibatezze locali. Ho scoperto parecchi ristoranti che farebbero la felicità di qualunque gourmet. I miei preferiti sono I quattro leoni – che noi chiamiamo Four Lions, perché parliamo tutti in inglese – e Mirò. Nel primo si mangiano cose semplici e genuine, ed è molto trendy. Vanno tutti lì, adesso come adesso. L’altro cucina ricette particolari, per lo più a base di pesce, ed è più raffinato. Devo ammettere che se non cadi in una trappola per turisti, i prezzi dei ristoranti a Firenze sono onesti. Anche il Cinghiale bianco non è male, e dell’Enoteca Pinchiorri non parliamo nemmeno, anche se lì i prezzi salgono.
Comunque alla sera sono talmente stanca che il più delle volte mangio un’insalatina con la troupe nel locale sotto l’albergo e poi vado a dormire.
***
Sono sul set a palazzo Capponi. Tutto è pronto per girare la scena in cui il dottor Lecter suona le variazioni Goldberg al pianoforte con la foto dell’agente Starling sul leggio al posto dello spartito musicale. La stanza è stata allestita in modo barocco, con un’attenzione estrema ai minimi dettagli. Ridley Scott è di una meticolosità maniacale. Ci hanno messo giorni, gli scenografi, ad allestire questo set, e i props sono diventati pazzi a procurarsi tutti gli oggetti che lui ha richiesto per fare atmosfera – dai candelabri al portasigarette d’argento, dalle penne d’oca ai libri antichi, dai fermacarte alle statuette in bronzo. Che poi il bello è che probabilmente nessuno di questi oggetti si vedrà nella scena, perché John Mathieson, il direttore della fotografia, sta sistemando le luci all’esterno in modo da far penetrare un unico fascio di luce bianca dalla finestra di fronte a Lecter che illumini soltanto la parte centrale della tastiera, il busto di Lecter e il giornale sul leggio. Intorno non si vedrà quasi niente. Tutte le scene sono mediamente buie, con una prevalenza di colori forti come il porpora e il nero e una zona di luce ben circoscritta, perché così vuole Ridley, che deve avere una passione per Caravaggio (e infatti il prossimo film che girerà, Legend, sarà tutto su questi toni rossi e neri). A che pro dunque sbattersi tanto coi particolari? Ovviamente gliel’ho chiesto, a Ridley. Mi ha risposto: “Perché il set dev’essere veramente il luogo in cui accade ciò che vede lo spettatore. Uno studio senza libri non è uno studio, un uomo di classe senza portasigarette non è un uomo di classe, e noi vogliamo far vedere un uomo di classe nel suo studio, giusto? Quindi occorrono libri e portasigarette. Anche se non si vedono”.
Mah. Il mondo è bello perché è vario.
Seduto al pianoforte adesso c’è Terry, lo stand-in di Tony Hopkins. John Mathieson gli sta girando tutt’intorno con l’esposimetro. Lo stand-in è la persona che occupa lo spazio fisico che verrà occupato dall’attore nella scena. Quando i set decorators hanno finito col ‘doily pushing’ e si ritirano, il set diventa ‘hot set’, ovvero è pronto per girare. Da questo momento non lo si può più attraversare, non si può toccare più nulla, e si fanno gli ultimi aggiustamenti alle luci prima di girare. Ora, ci vuole tempo per puntare la luce giusta sul viso di un attore, e certo non si può far stare uno del calibro di Hopkins immobile per mezz’ora mentre il direttore della fotografia fa le prove. Così ci sono gli stand-in, ovvero delle persone che devono assomigliare fisicamente all’attore in questione almeno nelle misure principali (altezza e robustezza) e devono anche essere vestite esattamente come lui – un fascio di luce indiretta sul nero ha un effetto diverso dello stesso su un colore chiaro. Quando anche le luci sono pronte, lo stand-in lascia il posto all’attore e si comincia a girare la scena.
“Vai a chiamare Tony nel trailer,” dice Ridley a uno degli assistenti di produzione. Questi scatta come un fulmine, diretto al trailer dove Tony sta riposando. Cioè, dove in teoria dovrebbe riposare, ma dove starà sicuramente leggendo. Contemporaneamente si stanno allertando parrucchieri e truccatori, che in un attimo giungono sul set con in mano l’occorrente per gli ultimi ritocchi. Tra pochi attimi si gira.
Mi faccio da parte, per dare meno fastidio possibile. John Mathieson fa un cenno per far capire che è pronto. Terry può alzarsi ora, e mi raggiunge. Ma non mi dice nulla, perché a partire da questo momento bisogna fare silenzio.
Ed ecco Tony, con la vestaglia di seta, elegantissimo, impeccabile. Senza guardarsi intorno, va dritto al piano, si siede lentamente sul seggiolino e appoggia con grazia le mani sulla tastiera. Suonerà lui le Variazioni. È un bravo pianista, e in questi giorni si è esercitato moltissimo. A casa suona spesso il piano per rilassarsi. Ridley, che ora chiamo Rid perché ho scoperto che lui si firma così, gli si avvicina e gli spiega esattamente quello che deve fare.
“Okay?” conclude. Tony abbassa la testa in segno di intesa. Dino lo raggiunge e gli dà una carezza sulla spalla. Vuole bene ai suoi attori. Mentre si gira un film, per lui sono come dei figli. Certo, poi finito il film se li dimentica. Dimentica anche i nomi.
Rid va a mettersi dietro la macchina da presa. È il momento in cui i truccatori danno il ritocco finale all’attore. Due minuti in cui il silenzio è pressoché totale e Tony offre con pazienza il suo viso per l’ultima spolverata di cipria. Di fatto, i truccatori sono quelli che fanno più set di tutti, perché sono gli ultimi ad allontanarsi prima di girare e non possono andarsene fino al cut finale. Poi Terry Needham, l’aiuto-regista (che io guardo con venerazione perché ha lavorato con Stanley Kubrick, anche se quando sta in ufficio va sempre in giro a piedi nudi) si rivolge ai cameramen dando loro gli ordini che precedono tutti i ciak di tutti i film di tutti i tempi.
"Stand-by… here we go… and… roll!” La macchina da presa comincia a riprendere. Un assistente alla regia batte il ciak davanti all’obbiettivo recitando il numero della scena, dell’inquadratura e della ripresa, che rimarranno così impresse sui primi fotogrammi di ogni inquadratura per identificarla al momento della stampa. Questa scena viene girata oggi per la prima volta, quindi quella che seguirà è la prima inquadratura della prima ripresa. Il ciakkista, che in questo caso si chiama Ciro ed è molto carino, dirà quindi ‘scena 35, 1, prima’. Quando la scena verrà girata di nuovo – ogni scena si gira mediamente tre volte, quando tutto funziona, ma si può arrivare a decine e decine di ripetizioni – Ciro dirà ‘scena 35, 1, seconda’ ecc. Ma vi spiegherò meglio questi dati tecnici più avanti, se ne avremo occasione.
Needham si dà un’ultima occhiata intorno per assicurarsi che sia tutto a posto e poi dà l’ordine finale: “… and… ACTION!” Anthony Hopkins si mette in movimento. Si gira.
È un momento magico. Tony è Hannibal Lecter, adesso. Il suo viso dolce si trasforma, ha una dolcezza diversa ora, più inquietante, più autocompiaciuta e viziosa. Quest’uomo è un attore straordinario, nato per fare questo mestiere. E io sono qui e lo sto guardando lavorare. Sono fortunata.
***
In questi giorni stiamo girando a Palazzo Vecchio. Abbiamo occupato mezza piazza, riempiendola di trailers e di gru e di vigili occupati a tenere lontano le centinaia di curiosi. Andare sul set è un bagno di folla ogni volta, quindi cerco di fare meno avanti e indietro possibili. Oggi ho deciso di restare in ufficio a sbrigare le faccende pratiche. Anche perché a Firenze a fare le stesse cose che si fanno a Los Angeles ci vuole il doppio del tempo, quindi almeno una giornata intera ‘off set’ me la devo prendere.
Dino è seduto di fronte a me a leggere il trattamento della Donna con la pistola di Konchalovsky, fresco fresco di traduzione – mia, ovviamente. Io sono al telefono per organizzare una cena a casa sua col sindaco di Firenze e il ministro Melandri.
“Elisabetta…” mi chiama Dino. Gli faccio segno che sono al telefono. Lui si alza, appoggiando il trattamento che stava leggendo sopra una risma di altre carte sulla sua scrivania. Non gli è piaciuto. Se gli fosse piaciuto lo starebbe dando a me per tenerlo al sicuro. Si avvicina e si ferma davanti alla mia scrivania.
“Chi è?” chiede.
“La dottoressa Urcioli.”
“E chi è?”
“Mi scusi un attimo, dottoressa,” e facendo gli occhiacci a Dino bisbiglio: “La segretaria del ministro Melandri. Stiamo organizzando la vostra cena diplomatica. Stia zitto un attimo.
“Ma chi viene a questa cena, solo la Melandri?” dice, a voce alta. “Io mica ho voglia di stare tutta la sera solo con questa, non è manco il mio tipo, figuriamoci!”
Lo incenerisco con lo sguardo, sperando che la mano sul ricevitore sia stata sufficiente a non far sentire alla Urcioli quello che ha appena detto.
“Va beh, ho capito,” borbotta lui allontanandosi, quasi offeso dal mio rifiuto di prestargli attenzione. Saluto velocemente la Urcioli, cercando di non mostrare imbarazzo nel tono di voce, con la vana speranza che non abbia sentito proprio tutto. Poi raggiungo Dino che è uscito nell’atrio.
“Dottore!” Lui si volta tranquillo e mi guarda come se non mi vedesse da ieri, che è come mi guarda sempre.
“Ehi, bella! Questa macchina del caffè è favolosa, ce la dobbiamo portare sul set in America, ricordatelo eh? Lascio a te questa responsabilità, vediamo se sei all’altezza.”
“Ma chi se ne frega della macchina del caffè!! Mi fa fare certe figure! La segretaria del ministro ha sicuramente sentito quello che ha detto!”
“E allora? Che ho detto di male? Ho solo detto che la Melandri non è il mio tipo.”
“A parte che ha anche detto che non voleva stare da solo con lei, ma comunque le sembrava il caso di dirlo adesso?”
“E quando lo dovevo dire?”
“Quando chiudevo la telefonata! Anzi non doveva dirlo proprio. Non è mica una cena romantica!”
“Se siamo solo io e la Melandri, glielo dici tu a lei che non è una cena romantica?”
Tiro un respiro profondissimo, poi scoppio a ridere. “Dottore, ma come devo fare con lei? Non ci starà da solo con la Melandri, glielo prometto, piuttosto ci vengo io, okay? E comunque Domenici ha detto che viene.”
“Bene, meno male. Ecco, guarda, ti faccio un caffè, così vedi come si fa.”
“Lo so già, me lo faccio anch’io tutte le mattine.”
“Ma io ti insegno a fare il caffè buono. Osserva con attenzione.”
Fotografia: Dino De Laurentiis, uno dei padri del cinema, che prepara un caffè a Elisabetta De Medio, traduttrice di Milano. La vita è meravigliosa.
Quattro maggio
È il giorno della press conference, ovvero della conferenza stampa di Hannibal. La facciamo nel magnifico Salone del Cinquecento a Palazzo Vecchio, che è anche la nostra prossima location. Il sindaco ce lo ha messo a disposizione gratis. In cambio, Dino gli ha promesso la prima del film a Firenze, a febbraio dell’anno prossimo – promessa che non manterrà, come spesso accade nel mondo del cinema. Ci sono più di 150 giornalisti da tutta Europa, dall’America e perfino dall’Asia. Io dovrò fare da interprete, ma non da sola, per fortuna, siamo in quattro. Me lo ha detto ieri l'organizzatore, Gianluca Nardulli, che è il figlio di Elvira. Inutile dire che non me la sento per niente, visto che non ho mai fatto l’interprete e che non sono veloce di riflessi. Farò sicuramente una figuraccia.
Per la press conference sono venuti a Firenze anche Steven Zaillian e Julianne Moore. Lei è arrivata ieri col figlioletto Caleb, di due anni. Portava una gonnellina di cotone e delle ciabattine rosa. Non è molto alta e ha i polpacci grossi, ma insomma, fossero tutte così. Oggi poi, che è truccata benissimo e ha sciolto la sua meravigliosa chioma rossa, è proprio bella. Per l’occasione ci siamo vestiti tutti bene. Persino Hopkins indossa un abito grigio tortora, camicia grigia fumo di Londra e cravatta di seta lucida grigio-perla. Ridley porta una giacca elegante grigia sbottonata con sotto una maglietta di cotone nera. Più di così non gli si poteva chiedere, non ce la fa proprio. Non dimentichiamo che è inglese. Io indosso una canotta bianca ricamata con dei pantaloni azzurri a vita bassa ricamati anche quelli a fiori bianchi, tutto Versace.
Dopo mezz’ora di trambusto i reporter si siedono ai loro posti e gli attori entrano in fila indiana, Hopkins e Julianne per ultimi, letteralmente assaliti dai flash dei fotografi. Tony inforca gli occhiali neri da sole e si siede al lungo tavolo di fronte al pubblico. Aspetto che si accomodino tutti. A un certo punto mi passa davanti un oggetto del desiderio vestito Cavalli che va a sedersi in prima fila accanto ad Aurelio De Laurentiis. La vedo solo da dietro. Capelli lunghi castani e corpo da sogno, come le donne di Luis Rojo. Da dove spunta questa? Chi diavolo è? Cerco l’addetto stampa per chiederglielo, ma appena lo intercetto, lui mi aggredisce dicendo che sono cambiati i programmi e che saremo solo in due a fare da interpreti, io e l’aiuto-regista per l’Italia, Alberto. Il che significa che farò una figuraccia ancora più considerevole, poiché più durevole, di quella che già pensavo di fare. Non una bella notizia.
Si comincia. Il sindaco dopo una breve introduzione cede la parola a Dino, che ringrazia gli intervenuti e subito passa la parola a Ridley Scott, presentandolo come ‘uno dei più grandi registi del mondo’. Rid, che sta pensando ai cazzi suoi come al solito, quando si sente chiamare a bassa voce si gira verso Dino e lo guarda con espressione post-disastro aereo - ‘dove siamo? Cos’è successo?’. Dino gli fa segno di dire qualcosa. Ridley avvicina la bocca al microfono.
“I’ve no idea what anyone is saying [non ho idea di cosa si stia dicendo],” comincia, e tutti ridono. Poi fa qualche osservazione sulla difficoltà di girare un film a Firenze col traffico e i turisti e bla bla bla, su quanto è bella questa città, finché la parola passa a Tony Hopkins. Noto che indossa il suo inseparabile orologio di plastica giallo/verde. Non che ci voglia un occhio particolarmente attento per notarlo.
La sala era già in silenzio, ma adesso sembra che tutto si fermi, che il tempo sia sospeso, e che lui occupi tutto lo spazio esistente. La sala è tutta per lui, gli occhi e le orecchie tutti per lui, l’energia tutta diretta verso di lui. E lui lo sa. Tony ringrazia per il ‘tremendous welcome’ e si dichiara felice di essere di nuovo in Italia, parlando come sempre a voce bassissima. Appare molto a suo agio. Il che potrebbe sembrare strano a chi lo conosce e sa che detesta parlare coi giornalisti e che rifugge dalle occasioni pubbliche di qualunque genere perché oltre che scontroso è pure timidissimo. Tuttavia basta osservarlo bene per capire che non è Anthony Hopkins a parlare, ma il dottor Lecter. Ecco perché è così disteso. Molti attori, e sicuramente Hopkins, sono degli involucri vuoti, che vengono riempiti volta per volta col personaggio che interpretano. Tony è irresistibile quando fa Lecter perché il personaggio di Lecter è irresistibile, e lui è quel personaggio. Si cala completamente nella parte, anche fuori dal set, se occorre.
L’addetto stampa dà finalmente il via alle domande dei giornalisti. Da questo momento, devo stare attenta.
La prima domanda è per Hopkins. Un giornalista impertinente gli chiede se per favore può togliersi gli occhiali. Lui lo guarda senza sorridere e risponde: “No”. Gelo in sala. Non serve nemmeno tradurre.
La domanda successiva è per Julianne. La classica domanda provocatoria del solito giornalista imbecille. Traduco per Julianne, cavandomela decorosamente. Lei capisce subito e sorride contenta come dire ‘questa è facile’, poi avvicina le labbra al microfono per rispondere. Parla veloce come un treno ma con un accento assolutamente delizioso. Capisco tutto. Peccato che mi dimentichi di tradurre in italiano quello che ho capito, generando così una pausa di attesa in cui il pubblico aspetta che io dica qualcosa, mentre io me ne sto bellamente in posizione da primavera botticelliana ad accarezzarmi le punte dei capelli, aspettando la prossima domanda che spetterà al mio collega, visto che abbiamo deciso di farne due a testa. Quando Alberto si prende la briga di tradurre lui quello che ha detto la Moore, mi rendo conto dell’errore e dico: ‘Oh, sorry’, con nonchalance, come se fosse normalissimo per una che è lì a fare l’interprete dimenticarsi di tradurre quello che dicono gli intervistati.
Sono proprio un disastro.
La prossima domanda spetterebbe ad Alberto ma la traduco io, per farmi perdonare. Tutto bene questa volta. Poi, mentre la palla ripassa a lui, sento una voce femminile che mi chiama. Guardo tra il pubblico ma non riesco a capire da dove provenga. Finalmente la individuo: una robusta signora sulla sessantina, con dei grandi occhiali da vista e tanti di quei gioielli che se li indossassi io camminerei piegata in due per il peso. Mi sta facendo ciao con la mano. Mi avvicino, chiedendomi chi possa mai essere.
“Ciao bella!” mi dice quando arrivo alla sua sedia. Riconosco immediatamente la voce: è Elvira!
“Elvira!” Le butto le braccia al collo e quasi le rovino addosso, tanta è la gioia. Le parlo al telefono da un anno ormai e le sono affezionatissima, ma non l'avevo mai vista di persona. Devo dire che la immaginavo completamente diversa. Mi piace così com'è.
“Ssst, piano...” mi dice lei ridendo e baciandomi sulle guance.
“Elvira, ma proprio oggi dovevo incontrarti, che sto facendo una figuraccia!” bisbiglio.
“Ma che dici? Stai andando benissimo!” mi rincuora lei. Questa è la persona che mi ha messo in contatto con Dino. Devo anche a lei di essere qui oggi. Cose che non si dimenticano.
“Vai adesso, che tocca a te,” dice. “Ci vediamo dopo.”
Mi ricompongo e affronto la domanda successiva per Ridley Scott; la traduco malissimo ma il mitico Rid, uomo di superiore intelligenza e pari bontà, capisce lo stesso, e non solo: quando risponde comincia con una frase corta e mi guarda aspettando che la traduca, poi quando ho finito aggiunge un’altra piccola proposizione e attende che traduca anche quella, e così via per qualche minuto, in un pas des deux perfettamente equilibrato. In sostanza Ridley ha detto che il finale del libro non lo ha convinto per cui quello del film sarà diverso, e che Tom Harris gli ha dato piena libertà di movimento, finché viene rispettato lo spirito del libro. Ovviamente è una balla colossale; meno male che Tom non è qui a sentire.
A seguito della conferenza è previsto un rinfresco - solo per i vip, nella saletta adiacente. Elvira ancora non si vede, quindi chiacchiero un po’ con Giancarlo Giannini e con Francesca Neri. Lei è molto simpatica, lui invece ‘fa’ il simpatico ma non lo è, anzi se la tira tantissimo. Nel mentre mi si avvicina Aurelio De Laurentiis.
“Ammazza, cosa sei oggi!” dice guardandomi dall’alto in basso. Penserete che sia un cafone, ma lo fa apposta, si diverte.
Mi piace molto Aurelio. Facciamo delle piacevolissime chiacchierate al telefono, lui ha una voce fantastica, supersexy, con un accento meraviglioso… ci parlerei per ore e ore e ore. Lui ovviamente non lo sa, e certo non ho intenzione di dirglielo. Tanto la fantasia non mi manca quando si tratta di trovare delle scuse per prolungare la conversazione quando lo sento al telefono.
“Immagino sia un complimento, quindi grazie,” gli dico. Giannini e la Neri si girano dall’altra parte per non essere di troppo.
“E sei pure brava. Mai lette sceneggiature scritte così bene, mio zio ha un gran culo ad averti intorno.”
Sorrido. “Senta, chi è quella ragazza che era seduta accanto a lei?” approfitto per chiedergli. Adesso non c’è più, la creatura Cavalli. È sparita.
Giannina Facio. Si chiama così. L’ho già sentita nominare, non mi viene in mente in che occasione. Era forse quella che stava con Fiorello dieci anni fa?
Un altro giorno
Pausa sul set. Stanno risistemando le luci nello studiolo di Lecter. A proposito, c’è una cosa importante che non vi ho ancora detto: anche se io per comodità parlo e parlerò di macchina da presa al singolare, Ridley gira sempre con due macchine, camera A e camera B. Non tutti i registi lo fanno. Le macchine sono sempre due, ma di solito la B non lavora neanche. Per Ridley invece, A e B sono ugualmente importanti. Ovviamente, girare con due macchine comporta un maggior dispendio di tempo per fare i set-ups, ovvero per disporle nella giusta posizione, perché due camere che riprendono la stessa scena è facile che si incrocino, quindi bisogna fare molta attenzione a evitare che l’una riprenda l’altra, e questo cercando di tenerle comunque il più lontane possibile tra loro perché se sono troppo vicine il taglio viene male. Attenzione a non confondere camera A e B con First Unit e Second Unit. La FU o prima unità è formata dalla squadra principale di persone che lavora al film accanto al regista. La seconda unità è costituita da una squadra minore, a volte con un proprio regista e sempre con i propri operatori alle camere e i propri assistenti, adibita alle riprese diciamo meno importanti, di riempimento o di contorno, come possono essere i paesaggi, le panoramiche sulla folla, le scene di massa, i dettagli o gli establishing shots – per esempio una ripresa aerea sull’Arno e su Ponte Vecchio all’inizio di un film che ‘stabilisce’ che ci troviamo a Firenze (in italiano sarebbe ‘inquadratura d’ambientamento’). Ecco perché nei credits si leggono cose confusionarie come A Camera First Assistant, B Camera Operator, B Camera Second Assistant, First Assistant Director Second Unit, A Camera Operator Second Unit, eccetera – se non c’è specificazione di unità, ci si riferisce alla prima; si specifica solo la seconda unità.
Detto questo me ne vado, tanto quassù non c’è nessuno.
Scendo sul Lungarno, dove sono parcheggiati tutti i nostri trailers, e mi siedo sul muretto. È una giornata bellissima, estiva. Dino oggi è in giro con la moglie a fare shopping. Gli scagnozzi di Tom Ford gli hanno regalato una tessera che vale uno sconto del 50% da Gucci.
Mentre mi fumo in pace una sigaretta, la testa di Terry [che è un amico di Anthony Hopkins e ora anche mio] spunta dalla porticina della roulotte di Hopkins.
“Elisabeta!” con una ‘t’ sola, ma almeno si sforza di dirlo in italiano. Mi volto e lui mi fa segno di avvicinarmi.
“Ti va di salire? Tony mi ha chiesto di invitarti.”
Oddio.
Salgo timidamente la scaletta ed entro nel trailer. Un minisalotto, praticamente. Molto carino. Ci sono anche lo stereo e la tv. Ed ecco Anthony Hopkins, seduto a un tavolo in jeans e maglietta.
“Hi Elizabeth,” mi dice sorridendo.
“Ciao, come va?”
Tony mi fa accomodare vicino a lui e comincia a farmi delle domande, di dove sei, ti piace stare sul set, che tipo è Dino, bla bla bla. Fino a oggi avevamo sempre parlato solo di lavoro. All’inizio rispondo a monosillabi, in soggezione, poi pian piano riesco a guadagnare un atteggiamento almeno umanoide.
A un certo punto mi chiede se non mi dispiace ascoltare i versi della Divina Commedia che reciterà in scena tra qualche giorno.
“Con piacere,” dico.
Lui si alza in piedi tutto fiero, mi chiede “Sei pronta?” e inizia la declamazione: “Comelaltri / verem per nostri spolie/ ma non pero calcuna sen / revesta….”
Povero Dante.
E povera me. Meno male che in Italia il film lo doppiamo.
“Bravissimo,” mento. “C’è solo un pezzo che…”
“Sì lo so, qui le stresh-enerimo… quello non riesco a dirlo.”
“Strascineremo, ripetilo con me, stra-sci-ne-re-mo.”
Mio Dio, sto insegnando Dante a Anthony Hopkins. Datemi un Lexotan.
Lui ripete. La buona volontà non gli manca. La nazionalità, ecco cosa gli manca. Impossibile per un americano recitare Dante. Anche per uno dei più virtuosi attori del mondo.
“Stre- shi-ne-remo,” ripete lui.
“Sì, ehm… già meglio. Solo un’altra cosa…” Cerco di spiegargli che l’ultima parola di questo verso va insieme alla prima del verso seguente: “Mesta è un aggettivo di selva, quindi devi dirlo di seguito, le pause non sono tutte uguali, ascoltami bene: Qui le strascineremo, pausa, e per la mesta selva, pausa, saranno i nostri corpi appesi, pausa. E poi vai avanti, ciascuno al prun…”
“…de l'ombra sua molesta,” conclude lui soddisfatto. Poi recupera una camicia stropicciata che aveva lasciato sul bracciolo del divano e la infila.
“Okay, proviamo a ripeterlo tutto insieme,” propongo.
Fotografia: io e Anthony Hopkins che scoppiamo a ridere dopo aver recitato un verso di Dante. Ecco, in questo momento vorrei che la mia vita fosse un film, per fermare l’immagine e farla durare quanto mi pare, e per poterci tornare quando voglio col rewind.
Finite le prove, ci mettiamo a chiacchierare del più e del meno. Tony mi racconta tanti piccoli aneddoti della sua vita, poi mi confida le sue impressioni dell’Italia. A un certo punto mi chiede se anch’io la vedo così, ma io, a furia di pensare che sto parlando con Anthony Hopkins, devo essermi distratta.
“Beh, ecco…”
“…anche Milano è così sporca?”
Roma, sta parlando di Roma. Ci è stato a girare Titus prima di venire qui, adesso che mi viene in mente.
Hopkins a Roma si è trovato malissimo. A parte la sporcizia – anche nei ristoranti, a suo dire - e i contrasti avuti con la regista di Titus, dice che è carissima, che si mangia male e che la gente è maleducata.
“Devi venire a Milano,” gli dico. “Tutta un’altra vita.”
Lo faccio ridere un po’ raccontandogli dei romani tremendi che ho conosciuto io (praticamente gli descrivo il mio ex fidanzato, che è milanese doc ma tanto Tony che ne sa?). Lui commenta con Terry che sono una ragazza sveglia e divertente.
Anthony Hopkins mi considera una ragazza sveglia e divertente. Segnatevelo, prego.
“A proposito di Titus,” dico, ormai sicura di me, “non mi è piaciuto per niente quel film. L’ho trovato noiosissimo.” Tony mi fulmina con lo sguardo e si allaccia i bottoni della camicia che finora aveva tenuta slacciata. Poi senza togliermi gli occhi di dosso, con la faccia severa e un tono di voce che non ammette repliche ribatte: “I didn’t ask your opinion [non ho chiesto la tua opinione].”
Oh, sarà anche Anthony Hopkins, uno dei più grandi attori del mondo e tutto quanto, ma ammazza che permaloso!
***
Piazza Repubblica, notturna. Stiamo girando la scena in cui Lecter passeggia sotto il portico, seguito da Gnocco/Lo Verso. Ci sono fumi e vapori da tutte le parti - Ridley è fissato con gli annebbiamenti - e non si vede niente.
“Elisabetta, chiama Konchalovsky.”
“Dottore, il numero ce l’ha, è sul 7.”
E che cavolo. Ha il suo cellulare, non ho capito perché bisogna chiamare sempre col mio. È vero che non pago io, ma se la telefonata deve farla lui, che la faccia col suo telefono. Mica sono la sua segretaria. Ci ho messo un’ora a mettergli i numeri automatici sul telefonino, in modo che possa comporli schiacciando un solo tasto. L’unica cosa che deve ricordarsi è la posizione. Al numero 1 c’è Elvira, al numero 2 c’è Ridley, al numero 3 ci sono io, eccetera. Non è difficile. Ma per renderlo ancora più facile, gli ho pure appiccicato un pezzetto di carta dietro al telefono con i nomi corrispondenti ai nove numeri ‘brevi’. Quindi basterebbe che lo guardasse. Oh, niente da fare.
“Ah, come si fa?” chiede.
“Deve schiacciare il 7.” Cosa che gli ho già detto mille volte.
Lui schiaccia, ma non succede niente. “Non funziona,” dice allungando la mano per dimostrare che non mente. Vedo un bel 7 scritto sul display.
“Deve tenerlo schiacciato un secondo dottore, non rilasciarlo subito. Glielo faccio rivedere.” Gli prendo il cellulare di mano e schiaccio il 7, tenendolo premuto un po’. Lui osserva attentissimo. Quando Andrei risponde gli restituisco il cellulare.
“Hallo, Andrei, how are you? Ehi, Elisabetta, brava, è comodo ‘sto affare! Non avevo capito che dovevo continuare a schiacciare.”
“Hallo? This is Andrei, Dino, is that you? I don’t understand, what did you say?”
“Certo che è comodo, gliel’ho detto,” rispondo.
“Brava, brava, avevi ragione stavolta.”
"Dino, hallo? Can you say it again?"
“Dottore però risponda ad Andrei.”
“Ah sì. Andrei! How are you my friend? You will be here tomorrow?”
Oddio, Konchalovsky deve venire a Firenze. Non mi ricordavo più. Dino ha organizzato un workshop a casa sua: Konchalovsky, Altieri, Tessadri e una sua collaboratrice; io li chiamo i 4 dell’Apocalisse. Devono rinchiudersi per tre giorni a lavorare al progetto Woman With the Gun, e la cosa più seccante è che rinchiusa con loro ci devo stare anch’io.
“Allora, Elisabetta, sentimi bene,” dice Dino, tenendo il cellulare vicino all’orecchio come se stesse ancora parlando con Andrei, “Konchalovsky arriva domattina con la moglie, tu li porti in albergo, gli fai posare le valigie e poi venite a casa mia. Bisogna mettersi subito al lavoro, c’è poco tempo. E ci devi stare anche tu sennò questi non combinano un cazzo, mi fanno solo buttare i soldi. Hai capito? Io adesso me ne vado a casa, tu che fai?”
“Resto ancora un po’ qui sul set.”
“Okay, ci vediamo domani, ciao.” E ad Andrei: “Andrei, tomorrow is going to be a day of hard work for you, so go to sleep now.” E chiude.
Lo guardo mettere il cellulare in tasca e allontanarsi col suo passo lento, il giubbetto sportivo piegato sull’avambraccio e il cappellino nero della Nike in testa. Che tipo. Lo adoro. Muoverei le montagne per farlo contento. E non è che lo dico tanto per dire, lo dimostro coi fatti: chi altri domani andrebbe a casa sua a guardare un regista e tre sceneggiatori che cercano di scrivere un film?
***
C’è una pausa nelle riprese. Ridley sta spiegando qualcosa al suo aiuto Terry Needham. Tony è seduto in un angolo a leggere il libro che gli ho regalato io, Which lie did I tell di William Goldman. Gliel’ho dato ieri e ne ha già fatto fuori metà.
“Hey, Elizabeth!” È Charles Marroquin che mi chiama, il best boy – ovvero il capo dei grips, che sono i tecnici che si occupano di montare il set e fornire tutta l’attrezzatura necessaria. Dopo il key grip – in italiano capo macchinista -, che si chiama Mitch Lillian, Charlie è responsabile della squadra macchinisti. Questi ragazzi hanno lavorato a film come Fargo, Fratello dove sei, Armageddon, Dead Man Walking e tantissimi altri. Dopo Hannibal faranno A beautiful Mind con Russel Crowe. Non è un lavoro facile, il loro. I grips devono avere molta intelligenza e molta fantasia perché è compito loro risolvere tutte le difficoltà pratiche che si presentano o possono presentarsi sul set. Se ad esempio il regista si mette in testa di riprendere un oggetto da un punto impossibile, non si pone il problema di come fare, perché non lo riguarda. Lo comunica semplicemente al capo macchinista, il quale insieme al suo braccio destro, il best boy, dovrà ingegnarsi a trovare un modo per renderlo possibile, costruendo piattaforme volanti, improvvisando marchingegni con i mezzi a disposizione nel luogo in cui si trova, trovando soluzioni sempre nuove e spesso bizzarre a cui un ‘profano’ non penserebbe mai. La gente queste cose non le sa, come non le sapevo io prima di lavorare qui. La crew è considerata manovalanza, al contrario di registi e sceneggiatori a cui si attribuisce una smisurata intelligenza che la maggior parte delle volte non hanno. Ma secondo voi servono più connessioni neurali per far volare Tom Cruise giù da un grattacielo con soltanto una corda intorno alla vita - in Mission Impossible - o per scrivere un copione come La casa sul lago del tempo? Ditemi un po’ voi.
Charlie mi corteggia, ma soltanto perché sono italiana. Gli americani hanno la fissa delle italiane, dicono che sono più sexy e che hanno più classe. Io ho sempre il chewing-gum in bocca, sul set mi siedo spesso per terra perché sto più comoda e ho l’abitudine di mangiare per strada, mentre cammino, perché si fa prima. Se questa è classe…
***
È arrivato Konchalovsky. Sono andata a prenderlo con l’autista in aeroporto e lo sto accompagnando in albergo. Al Lungarno. Lui voleva andare a Villa San Michele, ma Dino si è rifiutato di pagargli un hotel così caro. C’è anche la moglie con lui, una ventenne alta due metri, magrissima e biondissima, con degli occhialoni scuri enormi – o forse sembrano enormi perché ha un viso piccolissimo. Quando scendono dalla macchina noto che lei e Andrei sono vestiti uguali. Che carini.
“Andrei, ti aspetto qui. Mi raccomando, fai in fretta perché siamo già in ritardo,” gli dico in inglese. Abbiamo chiacchierato così tanto nei mesi di lavorazione di Marco Polo che ormai siamo in confidenza.
L’autista parcheggia la Mercedes in seconda fila e mette le quattro frecce. Resto in macchina ad aspettare. Il tempo di mettermi comoda e suona il cellulare. Dino.
“Allora?”
“Dottore, buongiorno!”
“State arrivando? Noi siamo tutti qui ad aspettare.”
“Andrei è andato di sopra a lasciare giù le valigie, appena è pronto arriviamo.”
“E te pareva! Gli hai dato il per diem?”
“Sì, è la prima cosa che mi ha chiesto.” Duecentocinquanta dollari. Gli altri tre dell’Apocalisse ne prendono cento.
“Spicciatevi.”
“Sì dottore.”
Il tempo passa però e il superman russo non si vede. Gli telefono in camera. “Sto scendendo,” dice lui, “mi sono fatto una doccia, dovevo almeno cambiarmi.” Ne avrebbe tutto il diritto, se avesse preso un volo precedente o fosse arrivato ieri. Oggi è pagato per lavorare, non è che possiamo regalargli le ore così.
Mi vado a prendere un caffè al bar, per ammazzare il tempo. Finalmente, dopo tre quarti d’ora, il russo appare in tutto il suo splendore davanti all’ingresso dell’albergo. Pantaloni di lino beige, camicia di lino bianca lasciata fuori con sotto niente (va beh che fa caldo…), ciabatte Gucci senza calze, occhiali da sole. Abbronzatissimo. Impeccabile. Insopportabile.
Appena saliamo in macchina mi suona di nuovo il cellulare.
“MA DOVE CAZZO SIETE?!?”
“Eh, dove siamo, dottore… stiamo arrivando. Andrei è sceso adesso dalla camera,” rispondo facendo un sorrisone al russo per rassicurarlo sul fatto che non sto parlando male di lui.
“E perché ci ha messo tanto?”
“Doveva farsi bello, si è vestito tutto figo neanche dovesse andare a una sfilata.”
“Eh, figuriamoci. Sbrigatevi!” conclude chiudendo la comunicazione.
Giunti a destinazione, Dino ci accoglie in cima alla scalinata, abbracciando Andrei con grande trasporto; è un bravo attore, considerato che l'avrà insultato fino a un secondo fa. Ci conduce nel salone, una luminosa stanza affrescata con un grande tappeto al centro e gli altri tre cavalieri che aspettano seduti sui divani.
Si fanno le presentazioni. Marcello Tessadri è un uomo mite, sulla settantina, elegante e composto. Mi fa subito un’ottima impressione. La sua collaboratrice Lorraine, capelli crespi rossi, sulla cinquantina, sembra un’ex regina di qualcosa, non saprei dire di cosa. Vive in Italia da quasi un anno ma non parla una parola d’italiano. Altieri è Altieri, grande scrittore e sceneggiatore.
Tessadri avvia la conversazione dichiarandosi onorato di conoscere il grande regista russo e di lavorare con lui. Aggiunge che gli dispiace di non parlare inglese, ma purtroppo ha vissuto a lungo in Francia e la sua seconda lingua è il francese.
“Mais alors, dites-le! On va parler francais!” esclama Andrei con nonchalance. Io e Altieri ci scambiamo un’occhiata.
“Super!” dice Tessadri con perfetto accento francese. ‘Super’ mica tanto, visto che Altieri il francese non lo sa. Lorraine pare di sì, invece. Io un po’ lo mastico ma sto zitta, mica che mi tocca pure fare da interprete.
“Bene,” interviene Dino. “Io vi lascio, devo andare sul set. Elisabetta mi raccomando.”
“Dottore, ma vengo con lei, cosa ci sto a fare qui?”
“No, no, devi controllare che questi lavorino,” ribatte lui, senza darsi pena di abbassare la voce neanche adesso che ci sono due italiani. “Poi stasera mi fai rapporto.” Annuisco sbuffando e mi lascio cadere su un divano.
Due ore dopo il quadro si presenta così: Konchalovky e Tessadri discutono animatamente in francese, con Lorraine che tenta di dire la sua senza che nessuno dei due le lasci spazio. Io e Altieri, che non capiamo una minchia, sonnecchiamo sui divani. Improvvisamente Sergio si alza in piedi:
“Signori, io me ne vado,” dice in inglese. “La mia presenza qui mi pare del tutto superflua.”
I tre francofoni lo guardano perplessi e un po’ imbarazzati. Non hanno capito che si è offeso.
Andrei si alza in piedi anche lui. “Piacere di averti conosciuto, allora,” dice in italiano, stringendogli la mano. “Ceniamo insieme stasera? Sei mio ospite. Lorraine, Marcello, vous vous joignez à nous?”
“Nous ne pouvons pas, nous sommes désolés, nous devons retourner à Viterbo,” risponde Lorraine.
“Bene, saremo solo noi quattro allora,” dice Andrei girandosi verso di me. “Elisabetta, tu non puoi mancare. Sergio, ci sentiamo più tardi per i dettagli.”
Cazzo!!!!!!!!! Andrei parla pure italiano! Che figure di merdaaaaa!!! Chissà cos’ha pensato di me e di Dino!! Chissà cosa dirà Dino quando lo saprà!
Il giorno dopo
“Eh certo che parla italiano, e che non lo sapevi?” è la reazione di Dino.
“Come, lei lo sapeva?” Sono esterrefatta.
“Eh certo, parla cinquanta lingue, quello. E il bello sai qual è? Che in tutte dice cazzate.”
“Ma dottore, ma poteva dirmelo, che cavolo! Gliene abbiamo dette di tutti i colori!”
“E allora? Chi se ne frega. Senti Altieri è ripartito?” mi chiede mentre comincio a frugargli sulla scrivania. Siamo nel suo ufficio, in produzione.
“Riparte domani.”
“È incazzato?”
“Abbastanza. Dice che l’ha fatto venire per niente.” Lui si fa serio e pensieroso, si passa una mano sulla testa: “E c’ha ragione. Ma che stai cercando, si può sapere?”
“Si sposti un attimo che guardo nei cassetti.”
Dino si tira pazientemente indietro con la poltrona.
“Lei ci ha pensato che sta facendo scrivere un film italiano in inglese a un italiano e a un russo che tra loro parlano francese?” dico.“Mi chiedo cosa potrà mai venir fuori.”
“Eh, me lo chiedo pure io.”
Nei cassetti non c’è niente. Quando li richiudo, Dino mette i piedi sulla scrivania. Noto che indossa delle scarpe nuove di Gucci.
“Insomma che stai cercando?” mi chiede di nuovo.
“Carine quelle scarpe.”
“E sapessi come sono comode. Ce ne siamo prese una decina, io e Martha. Abbiamo lo stesso numero.”
“Allora me le compro anch’io. E lo dico anche a Julia.”
“Julia chi?”
“La moglie di Konchalovksy.”
“Ah, com’è?”
“Adorabile.” Quella ragazza è veramente adorabile, al punto che non ti incazzi nemmeno per quanto è bella. Ieri ho passato una serata deliziosa, grazie a lei. Ci siamo piaciute subito. Siamo andati al Cinghiale bianco, che ho consigliato io – all’enoteca Pinchiorri c’erano già stati l’anno scorso, e all’inspiegabilmente famoso Cocolezzone non ce li avrei mai portati. Mi ci ha mandato Aurelio De Laurentiis dicendo che fanno la fiorentina migliore del mondo ma si mangia peggio che all’autogrill! Quando gliel’ho detto ha risposto che ho sbagliato a ordinare, che dovevo prendere la fiorentina. Ma se è l’unica cosa decente che hanno, dovrebbero limitarsi a servire solo quella, così non ci sarei andata perché non mangio carne. Lui ha risposto che noi milanesi non capiamo niente.
Dicevo, siamo andati al Cinghiale Bianco. Sergio e Andrei hanno discusso di stronzate sociologiche tutta la sera, perché nello script di Altieri c’erano degli albanesi ritratti come delinquenti e Andrei diceva di essere stufo di questi pregiudizi nei confronti degli slavi. Io e Julia invece abbiamo parlato di Ibsen e di intellettuali russi disadattati che non conosce nessuno – nemmeno io, e infatti in quella parte ha parlato solo lei. Da non credere. Julia è più bella di Claudia Shiffer, ma invece di fare la modella, vuole fare l’attrice di teatro impegnato. Non è adorabile?
Ah, un’altra cosa che ho scoperto ieri sera è che Chris Solimine non è gay. Pensava fossi sposata. Me l’ha detto Andrei mentre tornavamo in albergo. Ha detto che Chris era rimasto molto colpito da me e che avrebbe tanto voluto invitarmi a cena ma non si è permesso. Al rientro a New York pare abbia pensato per giorni se chiamarmi o meno, e abbia poi desistito su consiglio di Andrei, che pensava pure lui fossi sposata. E sapete perché lo pensavano? Perché porto il solitario all’anulare sinistro!! Roba da non credere.
“Allora, me lo dici cosa stai cercando?” Dino.
“No, non glielo dico.”
“E non me lo dire allora,” si rassegna lui aprendo il giornale e appoggiandosi allo schienale della sedia a leggere.
***
Sono in produzione. Qui al primo piano non c’è nessuno, sono tutti sul set a Palazzo Vecchio. Sto finendo di tradurre in inglese un trattamento di Carlo Carlei per un film di fantascienza ambientato nell’antica Roma: il MacGuffin del caso è la sindone. Prima era la spada nella roccia. Il MacGuffin, per chi non lo sapesse, è il pretesto da cui parte una storia. Il termine è di un amico di Alfred Hitchcock, che fu il primo a usare questo espediente e che riteneva la mitica valigetta all’inizio del suo Intrigo Internazionale il più riuscito MacGuffin di tutti i tempi. Parlando di valigette, anche quella di Pulp Fiction che Travolta e Johnson difendono dalla rapina al pub, quella luminosa che non si sa che diavolo ci sia dentro, è un MacGuffin. Va beh, andiamo avanti. Quando finisco chiamo Lorenzino al cellulare – l’autista – e gli chiedo di venirmi a prendere per portarmi sul set, poi scendo ad aspettarlo in strada, per fare prima. Appena arriva salgo davanti, e noto che i due p.a. che stavano fumando davanti all’edificio (i p.a. sono i production assistants, assistenti alla produzione) si scambiano un'occhiata perplessa. Chi se ne frega.
“Ciao Lo, come stai?” dico allegra a Lorenzo.
“Male finché non accetti di uscire con me.
Rido. “Non ricominciamo eh?”
“Allora tu dimmi quando usciamo.”
“Mai, te l’ho già detto.”
“Ma perché?”
“Perché no! Mica posso uscire con tutti quelli che me lo chiedono!”
“Non è per questo.”
“E perché allora?”
“Perché pensi che sono troppo giovane.”
Lorenzo è nato il mio stesso giorno, il 5 luglio, ma sei anni dopo di me. “Okay, hai indovinato, è per questo.”
“Secondo me è proprio una cosa stupida,” commenta lui immettendosi nel traffico. Sono d’accordo, ma non glielo dico.
***
In ufficio.
“Elisabetta!”
Dino mi chiama. Accorro.
“Chiudi la porta, ti devo parlare. Hai chiuso bene?”
“Ermeticamente.”
“Senti, tu sei una ragazza molto sexy, lo sai.” Lo guardo stranita, chiedendomi dove voglia andare a parare. Dino non si è mai sognato di fare commenti di questo genere su di me. In più, non mi pare proprio di essere sexy: porto sempre dei pantaloni cargo di due taglie in più della mia, i capelli legati con la coda e gli occhiali da vista anche se ci vedo benissimo (lenti da riposo). Lui continua, un po’ imbarazzato: “Quindi non hai bisogno di metterti queste canottiere così scollate.”
“No, se non si morisse di caldo no.”
“Dai che non fa tutto ‘sto caldo!” esclama lui.
“Ci sono 40 gradi! E poi scusi, ha visto come si vestono l’assistente di Ridley e quella di Branko? E le segretarie di produzione? Io almeno porto sempre su i pantaloni lunghi, loro viaggiano con gli shorts inguinali e -–“
“Ma hai visto come sono?”
“Cosa c’entra?”
“C’entra. Quelle si possono mettere quello che gli pare, tanto gli uomini non le guardano lo stesso perché sono brutte.”
“Non mi pare che Angela sia brutta.” È sarcasmo, il mio. Angela è bellissima, è la copia di Cameron Diaz.
“Ma non ha sex-appeal, è una bionda slavata, non sa di niente! Tu sei provocante!”
“E Giannina Facio allora? Lei non è provocante?” Qualche giorno fa ho scoperto che Giannina Facio è la fidanzata di Ridley Scott. Per poco non mi veniva un colpo. Non mi sarei mai aspettata che Rid avesse una fidanzata, e che potesse essere una come lei. Certo che Ridley è strano. Nel suo ufficio ha un poster appeso al muro che raffigura una bambina sdraiata su un tavolo di metallo con un vestitino bianco, e un gruppo di uomini vestiti di nero in piedi intorno a lei che la guardano. Che poi cosa ce l’ha messo a fare, che non ci sta mai, in ufficio? Ha anche uno strano libro sulla scrivania, un volume di fotografie di bambini mutilati, legati, deturpati in qualche modo o imprigionati in strani marchingegni di ferro. Mah.
“Che c'entra, lei non lavora con noi, tu stai sul set, e con quelle canottiere fai distrarre la troupe.”
Faccio distrarre la troupe. Io. Che sto quasi sempre chiusa qui dentro a tradurre copioni e vado in giro vestita come una profuga albanese. Sono senza parole.
“Okay, vorrà dire che morirò di caldo. Spero che la qualità del mio lavoro non ne risenta,” concludo, seccatissima. “Posso andare?” Meno male che mi sono comprata le scarpe di Gucci e ho qualcosa con cui consolarmi. Dino aveva ragione, sono di una comodità da non credere. Se non costassero una fortuna me ne comprerei dieci anch’io.
“Dai Elisabetta, non mi mettere in croce, che ti costa metterti una maglietta con le maniche corte?” Sì, e pure a girocollo, magari.
“E a lei cosa costa dirmi la verità? Lo sa che non sono stupida,” ribatto guardandolo dritto negli occhi. Poi mi metto a braccia conserte e aspetto la risposta.
“Appunto, sei intelligente, quindi la verità già la sai,” risponde.
“È quello che penso io?”
“Eh certo, c’è bisogno di chiederlo?”
“Quindi non è vero che distraggo la troupe.”
“Vattene va’,” risponde sospirando.
Vado.
Metà maggio
Questo weekend è venuto a trovarmi il mio ex-fidanzato avvocato. La prima sera abbiamo litigato perché al ristorante ho incontrato Anthony Hopkins e l’ho salutato con un bacio, la qual cosa per una frazione di secondo l’ha fatto sentire messo da parte – avrei potuto presentarglielo, se si fosse avvicinato, ma ha preferito andare a sedersi al tavolo. Il giorno dopo siamo saliti insieme a Milano per partecipare a una gita con degli amici suoi tutti più divertenti di lui e abbiamo litigato di nuovo perché a suo dire l’ho fatto sentire messo da parte tutto il pomeriggio. Poi per fortuna il weekend è finito e sono potuta tornare al lavoro.
Stasera abbiamo girato la scena dell’omicidio di Pazzi, quella in cui Lecter lo impicca dal balconcino sulla facciata di palazzo Vecchio. La giornata è stata spesa in preparativi, e le riprese sono cominciate col buio. È stata una notte bellissima. C’erano migliaia di persone oltre le transenne, e noi che eravamo al di qua ci sentivamo tutti delle star. Sono venuti anche Thomas Harris e la moglie, e Leonardo Mondadori col figlio Francesco (con questi ultimi siamo arrivati insieme stamattina, mi hanno dato un passaggio con l’aereo privato da Milano. In cambio gli ho fatto vivere un’avventura epica qui a Firenze che si ricorderanno per sempre, ma è argomento per un altro libro). Tom si è fermato qualche giorno, di passaggio per la Francia. Mi ha scritto una bella dedica con la sua incredibile calligrafia – la calligrafia di Lecter che si vedrà nel film, quella con cui Hannibal scrive la lettera a Starling, è in verità quella di Tom. Me la terrò carissima.
***
Dino è felice come un bambino, da due giorni. La Lazio finalmente ha vinto lo scudetto. È così contento che quando gli ho consegnato i fax minatori di Steven Zaillian con cui ricordava a regista e produttore che la sceneggiatura non si può cambiare senza prima chiedere permesso a lui non si è preoccupato neanche un po’. Da quand’è che questa squadra non vinceva uno scudetto? Un’eternità. Gliel’ho detto, a Dino: ‘Dottore, guardi che sono io che le ho portato fortuna.’ E lui ha risposto: ‘Lo so’.
Ritorno negli States
A Baltimora, dove siamo atterrati dopo essere partiti da Pisa, ci aspettava un pullman. Dopo un viaggio in prima classe su un Boing 747 privato, ci aspetta un pullman. Con l’aria condizionata e la tv e tutto quanto, ma pur sempre un pullman. Va beh, meno male che lo spirito di adattamento non è tra le cose che mi mancano. Tony Hopkins appena si siede si riaddormenta. Sono tutti rimbambiti dopo tante ore di volo, tranne io e Ivano Marescotti, che sprizziamo energia da tutti i pori (forse perché siamo italiani?). Ci siamo seduti vicini, così possiamo continuare a chiacchierare. Ha una bella voce, questo attore. Potrei fargli perdere qualche ora.
***
E adesso il set. Diverso da Firenze. Qui a Washington siamo accampati. Gli executive, ovvero Dino, Ridley e Branko con relative assistenti, non hanno un ufficio proprio. Il loro ufficio è il trailer. E il catering è sotto un tendone al base camp, altro che salone affrescato! Il base camp, o campo base, è lo spazio occupato dai trailers. In questo caso è in un enorme spiazzo dietro la Union Station, la stazione ferroviaria di Washington, D.C., dove gireremo la scena della telefonata tra Starling e Lecter e quella del rapimento di Lecter da parte dei sardi di Verger. Qui la giornata si passa interamente sul set, e soltanto la sera il servizio autisti ci riporta tutti in albergo. Se occorre una macchina per i fax, è nel trailer di Branko. Se serve un computer, noi assistenti ne abbiamo uno portatile a testa. Se c’è bisogno di una stampante, è nel trailer di Dino, perché io sono quella che scrive di più. E ovviamente, tutti abbiamo un cellulare. Americano. Da cui posso fare tutte le telefonate che voglio a carico della produzione.
Ho già provveduto a registrare i numeri brevi sul telefono di Dino. Glieli ho messi nella stessa posizione di quelli di Firenze. Ma non se li ricorderà lo stesso. Il problema maggiore è stato il satellite per fargli vedere le partite italiane. Il tecnico non riusciva a montarlo sul trailer, e mentre ci provava Dino gli mandava tutte le maledizioni possibili e immaginabili. Il poveretto ora quando lo vede cambia strada. Non sa che Dino, adesso che le partite si vedono, va dicendo a tutti ‘Quant’è bravo quel ragazzo che mi ha messo il satellite, quando lo vedo gli chiedo il numero di telefono, lo faccio venire a lavorare per me anche nei prossimi film, se vuole’.
Dodici giugno
Union Station. Mattino. Dobbiamo terminare la scena del rapimento di Lecter. Ridley Scott è seduto accanto alla macchina da presa a fare lo storyboard. Lo fa quasi sempre, prima di iniziare a girare. Disegna con la sinistra, e dalla velocità con cui lo fa e dal fatto che non cancelli mai si capisce che ha già tutta la scena in testa, sa già dove mettere la macchina, ha già previsto tutto. Rimane solo da spiegarlo agli altri. Gli storyboards sono dei disegni preparatori che illustrano le sequenze più complesse. Mostrano la posizione dei principali elementi dell’inquadratura e i movimenti della macchina da presa – anzi, delle macchine da presa, plurale - rispetto ad essi. L’avete capita la differenza tra inquadratura, scena e sequenza, vero? L’inquadratura è quello che la camera vede, con una certa angolazione e da una certa distanza o scala. La scena è un insieme di inquadrature caratterizzate da una continuità di spazio, tempo e azione. La sequenza è un insieme d’inquadrature che raccontano un certo episodio. Tutto quello che giriamo qui alla Union Station, dall’arrivo di Starling al gioco del gatto e del topo all’interno della stazione fino al rapimento di Lecter da parte dei sardi fuori al parcheggio, tutto questo costituisce una sequenza, formata da moltissime inquadrature e da alcune scene. In un film di un’ora e mezza ci sono mediamente seicento inquadrature. Ma possono essere anche il doppio. Ovviamente dipende anche dalla durata del film; di solito un’inquadratura dura tra i 5 e i 15 secondi. Il piano sequenza, che non c’entra niente adesso ma vi spiego lo stesso cos’è almeno non vi confondete coi termini, estende al massimo la ripresa senza interruzioni; un’intera sequenza rimane così com’è, senza essere alterata in moviola. Tuttavia, ci sono dei limiti tecnici: un piano sequenza non può essere più lungo di 10 minuti perché quella è la durata massima senza stacco della pellicola (qualcuno dice 11 perché arrotonda per eccesso, essendo il tempo preciso compreso tra i 10 e gli 11). I piani sequenza più lunghi nascondono degli stacchi invisibili, come il notissimo Rope - Nodo alla gola di Hitchcock, che è un film girato senza interruzione di ripresa, in tempo reale (tranne le pause per cambiare i rulli, praticamente il camera loader di Hitchcock toglieva la pellicola impressa dal caricatore e la sostituiva con una nuova con la stessa velocità con cui Starling cambia la batteria scarica del cellulare quando Lecter la chiama e le chiede di mettere una batteria nuova) ma che tuttavia non contiene come si crede una sola inquadratura, bensì otto inquadrature di dieci minuti circa l’una, unite in modo invisibile fino a formare la durata complessiva del film – ottanta minuti, appunto.
Dodici giugno - sera
La giornata è finita. Sono le otto e siamo tutti stanchi morti. Purtroppo la scena del rapimento non l’abbiamo terminata neppure oggi. Ridley l’ha fatta ripetere un’infinità di volte. Non era mai come diceva lui. È un regista davvero esigente, un perfezionista patologico, però non perde mai la pazienza, non è un isterico come Moretti, per dire (riferisco cose sentite, io non l’ho mai incontrato). Se una scena non viene bene non se la prende mai con gli attori o con la troupe. Peccato che rifare tante volte una scena determini dei ritardi nel programma delle riprese (schedule) che determinano a loro volta un aumento delle spese, perché ogni giorno aggiunto di riprese è un giorno in più in cui bisogna pagare tecnici, attrezzature, alberghi, permessi eccetera.
Permettetemi di spiegarvi, già che siamo in tema, cos’è uno schedule: quando si fa un film, dopo il reclutamento dei talents, ossia delle figure chiave che lavoreranno al film (regista, sceneggiatore, dop, montatore ecc) da parte del produttore, l’approvazione della sceneggiatura e il reperimento dei soldi necessari, si procede per tre fasi principali: pre-produzione, produzione e post-produzione. Quella centrale, in cui ci troviamo ora, non è che una parte, e spesso la minore, del processo realizzativo di un film. Prima di girare, infatti, occorrono mesi da dedicare all’organizzazione generale – alberghi, spostamenti, permessi -, alla scelta delle locations – i luoghi in cui ambientare le varie scene -, alla messa a punto degli elementi profilmici - ovvero alla preparazione del materiale necessario alle riprese vere e proprie -, e alla stesura dello shooting schedule, ovvero di un programma dettagliato dello svolgimento delle riprese - dove si gira cosa e quando. Lo schedule è importantissimo, e il suo scopo principale, oltre naturalmente a quello di permettere al regista di aver sempre presente nel dettaglio il lavoro che c’è da fare, è quello di risparmiare tempo e denaro. Un esempio pratico, semplice semplice: se ho un film che si svolge tra l’Italia e l’India, non sposterò tutta la crew avanti e indietro tra Italia e India seguendo il ritmo della sceneggiatura. Girerò prima tutte le scene ambientate in Italia, poi quelle in India (o viceversa, ovviamente), e l’alternanza verrà creata in fase di editing, ossia di montaggio. Il che non è semplice come sembra: se quando è partito per l’India l'eroe aveva i capelli castani e poi di ritorno in Italia li ha verdi, girando prima in Italia me ne devo ricordare, perché una volta in India, è troppo tardi per tornare indietro. Anche a questo serve la segretaria di edizione, una definizione che non rende giustizia a un ruolo importantissimo e fondamentale – l’inglese script-girl non è molto meglio -: è lei infatti che scriverà nel suo registro che l’eroe in determinate scene ha i capelli castani o verdi. Se una volta in India nessuno si ricordasse come li aveva (in sceneggiatura mancano i particolari) c’è il suo diario di lavorazione, con registrato tutto quello che è accaduto durante le riprese. Per le note più strettamente tecniche invece, c’è il bollettino di edizione, che viene compilato sempre dalla script-girl insieme al diario di lavorazione. Ecco dunque spiegato il lavoro della segretaria di edizione. Truffaut diceva che tiene le fila del film. In effetti il suo è l’incarico di maggior responsabilità dopo quello del regista: innanzitutto, deve assicurarsi che le scene riprese seguano la sceneggiatura; oltre a questo, deve registrare giorno per giorno le riprese effettuate, i tempi impiegati per dette riprese, i metri di pellicola utilizzati, e le caratteristiche di ogni ripresa. A questo scopo sta sempre seduta accanto al regista, arriva prima di lui e se ne va dopo, e oserei dire che è la persona a cui si richiede maggiore concentrazione in assoluto tra quelle che lavorano in un film. Non può lasciarsi sfuggire nulla. Ecco perché sono quasi sempre donne che lo fanno. Gli uomini sono più portati a pensare a una cosa alla volta, mentre le donne riescono a concentrarsi su più cose contemporaneamente e in nessun mestiere questa capacità è fondamentale come in quello in questione.
Ovviamente la segretaria di edizione non è un computer. Gli errori sono inevitabili. È semplice per uno spettatore notare un vaso di fiori freschi che in una stessa scena appassiscono improvvisamente (ricordo un fatto simile in un film di Louis Malle, Il danno. La scena con Jeremy Irons e Juliette Binoche a letto insieme era stata girata a due giorni di distanza. I gigli freschi nel frattempo erano appassiti, ma nessuno ci aveva fatto caso, così nella scena montata si vedono i fiori appassire nel giro di pochi secondi). Ma se sapeste a quanti particolari bisogna prestare attenzione quando si gira, capireste quanto una cosa così possa sfuggire facilmente, e non solo alla segretaria di edizione ma anche al montatore – che essendo quello che compone il film è quello che in ultima analisi dovrebbe accorgersene – e a tutti quelli che vedono il film prima di distribuirlo. Facile criticare. La verità è che il mestiere del cinema è complicatissimo.
Ma torniamo allo shooting schedule. È chiaro che il programma preparato in pre-production è sempre soggetto a revisioni a seconda di molti fattori, non ultimi i rimaneggiamenti alla sceneggiatura. Steven Zaillian manda pagine nuove ogni settimana, il che dà luogo a continui riaggiustamenti organizzati su schedule settimanali che vengono preparati e distribuiti man mano durante le riprese. Uno schedule di questo tipo riunisce le seguenti informazioni: data del giorno di riferimento, numero della scena, pagina dello script in cui la scena è contenuta, indicazioni interno/esterno, giorno/notte, breve descrizione della scena da girare e location.
Mi rendo conto che ogni spiegazione comporta altre domande (c’era una famosa legge di Murphy che diceva: per pulire una cosa bisogna sporcarne un’altra): con tutta probabilità, infatti, vi starete chiedendo il perché dei cambiamenti di sceneggiatura. Non ho forse detto che lo script si approva in pre-produzione? Non ho forse detto che tutto viene deciso e organizzato prima? Sì. In teoria dovrebbe essere così. Ma in pratica, il diavolo spesso ci mette la coda. Qui da noi i diavoli sono: Tom Harris, a cui ogni giorno viene una nuova idea geniale per migliorare la scena che gireremo il giorno dopo; i tempi strettissimi (quando il giovedì ci si accorge che si sta ancora girando una scena che doveva essere finita martedì, se si può si taglia la scena di venerdì (non è mai così semplice ovviamente, ma per farvi capire); l’imprevista lunghezza delle scene montate giornalmente e provvisoriamente che sommate ad altre fanno diventare troppo lungo il film; e un sacco di altri fattori dei più vari, dall’improvviso abbandono del set di un attore come è successo a noi con la zingara, al sole in un giorno in cui era prevista pioggia e si doveva girare una scena con la pioggia.
Un’altra domanda che potreste fare è questa: chi si occupa dello shooting schedule? La risposta è: dipende. In Hannibal, in pre-produzione se ne sono occupati l’executive producer Branko Lustig, il line producer Lucio Trentini, e l’aiuto regista Terry Needham, quello che ha lavorato con Stanley Kubrick e che spero non mi denunci per stalking, visto che appena arriva in ufficio lo assalgo regolarmente chiedendo altri aneddoti sul mio regista preferito (qui non è la sede, ma vorrei scrivere un altro libro con tutte le cose succulente che mi ha raccontato). Durante le riprese, invece, se ne occupano Branko, a cui spetta anche il compito di farlo rispettare, e in via minore e puramente esecutiva il production manager, che in Italia era Lucio Trentini, mentre qui è una signora che non conosco (si chiama Pamela). Il lettore attento si chiederà: ma Trentini non era il line producer? Sì, anche. Quello è il titolo che avrà nei credits, per distinguerlo da Pamela, che di fatto fa negli Stati Uniti la stessa cosa che faceva lui in Italia, ma lui ha contribuito anche alla ricerca delle location, lei no. Capisco che quanto detto non sia di immediata comprensione, ma non scoraggiatevi; al di là della contemporanea presenza di due maestranze (italiana e americana) nel nostro film, che inevitabilmente crea confusione nell’attribuzione dei titoli, quello di chi fa cosa in un film rimane spesso un mistero irrisolto, impenetrabile ai non addetti ai lavori. L’executive producer, per esempio, a volte è un titolo che viene tributato all’agente di un attore. A volte è quello che si occupa di mettere insieme i nomi per il film, un produttore senza portafoglio. Altre volte è quello che ci mette i soldi ma sa a malapena che film si sta girando. Insomma, dipende. Spielberg si attribuisce il titolo di executive per i film che produce, ma certo non fa la posta al regista né perde il sonno per non andare fuori schedule o fuori budget come succede a Branko. Che poi Steven Spielberg non è neppure l’esempio migliore, visto che la maggior parte delle volte non si fa accreditare. In Men in Black, sia il primo che il sequel (che uscirà l’anno prossimo con gli stessi attori e lo stesso regista, Barry Sonnenfeld) figura come executive. Ma avete idea di quanti altri film popolarissimi, da Cast Away a Meet the Parents, da What Lies Beneath a Chicken Run, da Gladiator ad American Beauty, hanno dietro il grande ebreo regista di E.T. in veste di produttore esecutivo? Tantissimissimi.
Tredici giugno
Apro gli occhi. È mattino. Nella mia meravigliosa stanza 310 al Westin di M Street trionfa il sole. Subito mi rabbuio: ieri era nuvolo. Ergo: la sequenza fuori dalla Union Station verrà metà con l’ombra e metà col sole, perché siamo in over-schedule - in ritardo sul programma di riprese - di un giorno e non possiamo aspettare che il tempo torni come ieri. Stavolta dovranno pensarci i tecnici della fotografia a sistemare il guaio.
Mi faccio una doccia veloce al ritmo di Santana e mi vesto, slacks verde militare, canottiera nera col reggiseno beige sotto (non mi sbatto nemmeno a intonare i colori), cellulare alla cintura, badge e occhiali da sole appesi al collo, capelli bagnati tenuti su col mollettone, zainetto in spalla.
Qualcuno potrebbe dirmi: esci conciata così? Ebbene sì. Da quando lavoro nel cinema ho imparato a vestirmi malissimo, e non avete idea di quanto ci si senta liberi. È veramente un’altra vita potersi vestire come degli straccioni. Avete presente le foto degli attori scattate dai paparazzi? Sembra che lo facciano apposta a vestirsi come peggio non si può, invece no. Lo fanno perché possono.
In questo ambiente ci si veste così, dal produttore al vertice della piramide all’ultimo dei p.a. L’imperativo categorico è il binomio praticità/comodità. E allora vai di bermuda, Timberland, magliette e canottiere. Devo dire che Ridley conserva un certo decoro anche sul set. Forse perché quando gira si muove poco e soffre il caldo meno degli altri, ma lui indossa sempre la sua magliettina di cotone nera, blu o marrone, pantaloni lunghi di tela leggera e scarponi (non Timberland però, troppo griffati per lui). E anche Dino mantiene il suo stile, anche se in città si veste meglio. Io sono proprio un cesso quando sono sul set, e ne vado fierissima. Non solo non mi trucco ma mi trucco male, e mi sono comprata degli occhiali da vista con le lenti da riposo e la montatura che m’imbruttiscono ulteriormente. Peccato solo per le foto, perché non ne ho una decente e quando le riguarderò a 60 anni sono certa che penserò ‘ammazza ma ero così brutta da giovane? Sono quasi meglio adesso’. E va beh, non si può avere tutto.
Faccio una colazione fulminea al base camp e raggiungo la crew. Hanno tutti le facce scure per via del tempo, come mi aspettavo. Dino è seduto accanto a Ridley, che sta disegnando lo story-board. Appena mi vede mi fa segno di avvicinarmi e mi dice, a bassa voce:
“Ciao bella. Che facciamo, ce ne andiamo io e te?”
“Salve, doc. E dove andiamo?”
“Abbiamo un sacco di lavoro da fare, dobbiamo mandare dei capitoli a Tullio per la biografia e ci sono pure le note da scrivere al trattamento di Konchalovsky.”
“Okay andiamo allora.”
Dino si alza, saluta tutti alzando il giornale piegato che ha in mano, e insieme usciamo dalla stazione e ci avviamo verso la sua Lincoln, uno accanto all’altro, con le scarpe di Gucci uguali ai piedi – stesso numero, anche, 38 e mezzo. Il fotografo di scena ci intercetta nella piazza e ci chiede di farci una foto. Ci mettiamo in posa: click. [Sarà la foto più cara che mai avrò, quella che vedete sul blog.] Ringraziamo e proseguiamo. Vediamo l’autista appoggiato alla portiera a braccia conserte, sta guardando nel vuoto. Quando però entriamo nel suo campo visivo la sua faccia si anima, come se avesse inserito la spina nella presa di corrente.
“Al base camp,” ordina Dino col suo vocione autoritario, come se stesse dando ordine a un plotone di fare fuoco. L’autista gli apre la portiera dietro, aspetta che si sieda e la chiude, poi fa il giro dall’altra parte, apre la portiera anche a me, la richiude e si mette al volante. Io guardo fuori dal finestrino, poi guardo Dino, che si è già tuffato nel giornale.
Sono felice.
***
“Cominciamo dalla biografia?” domando dopo che ci siamo messi comodi al tavolo da lavoro nel trailer e ho acceso il computer.
“Okay. Dove eravamo rimasti?”
“A Leonard Cohen che riceve una telefonata da Jimmy Hallow che gli chiede il favore di dare a Frank Sinatra un ruolo in Da qui all’eternità.”
“Ah, sì. Cohen era turbato dopo questa telefonata, e mi chiese un parere. Gli consigliai di accettare, perché un giorno avrebbe potuto aver bisogno di un favore in cambio. A parte che Sinatra prese l’Oscar per l’interpretazione e fu determinante per il successo del film. Ma poi quando la sua attrice di punta si mise in testa di sposare Sammy Davis jr, quello poté ricambiargli il favore.”
Adoro ascoltare Dino che racconta queste storie, è davvero come fare un tuffo nella storia del cinema. Marylin Monroe, Audrey Hepburn, John Huston... mi sembra di conoscerli tutti personalmente. I più strani comunque siamo sempre noi italiani. Totò, per esempio, che ha fatto ridere generazioni, era un uomo cupo, triste e patologicamente geloso della moglie, Franca Faldini, che aveva trent’anni meno di lui ma lo amava follemente – e infatti gli è stata accanto tutta la vita. Alberto Sordi invece era patologicamente tirchio, e aveva un difettuccio… un problemino… oddio non so se posso dirlo. Forse no. Quando Dino me l’ha raccontato ha detto di non dirlo a Tullio, mica che lo metteva nella biografia. Quindi no, non posso dirlo. Ah, lo conoscete il vero nome di Totò, alias Antonio De Curtis? È il seguente, tenetevi forte: Antonio Griffo Focas Flavio Dicas Commeno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cicilia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo. Non so come facesse a ricordarselo.
***
Nel trailer, ora di pranzo. Abbiamo lavorato tre ore, io e Dino. Adesso sono inginocchiata per terra a sistemare il milione di carte che ho nella valigetta, mentre lui è seduto al tavolo a rileggere le note che abbiamo scritto a Konchalovsky. A un certo punto scoppio a ridere.
“Che c’hai da ridere?” mi chiede lui.
“Niente, dottore.”
“Come niente, stai ridendo.”
“Stavo ripensando a quando Raffaella le ha proposto il libro di Peter Maas.” Mi è venuto in mente questo episodio per associazione di idee con alcuni documenti che ho appena riordinato.
“Embè?” fa lui, curioso come un gatto.
Gli rinfresco la memoria raccontandogli com’era andata. Raffaella era venuta in ufficio a proporgli un film tratto da un romanzo di Maas. ‘Parla di un sottomarino, papà, e visto che tu c’hai i sottomarini…’ aveva detto lei, adorabilmente. In effetti Dino aveva ancora questi diavolo di sottomarini che aveva usato per fare U-571. Stavano a Cinecittà a prendere polvere, sarebbe stato intelligente sfruttarli per qualche altro film. ‘Ma com’è?’ aveva chiesto Dino, subito impaziente. ‘Un film d’avventura, tipo Apollo 13,’ aveva risposto lei, citando il titolo in inglese. ‘Eh?’ aveva urlato lui. ‘Tipo Apollo 13!’ aveva ripetuto lei, in italiano. E lui: ‘E che c’entrano i sottomarini con Apollo 13, quelli stavano sulla Luna! No, no, lasciamo perdere!’ L’aveva liquidata in mezzo secondo. A nulla erano serviti i tentativi di lei di spiegargli meglio.
“E allora? Perché ti fa ridere?” mi domanda Dino a cui spesso sfugge il lato comico delle cose.
“Perché quando paragonava il libro ad Apollo 13, Raffaella si riferiva al genere, non alla trama.”
“Sì, sì, lo so, non sono scemo, ma io i sottomarini avevo già trovato a chi venderli e non glielo volevo dire.”
Dio, come lo adoro! Ma voi gli cambiereste qualcosa?
Diciannove giugno
Ultimo giorno a Washington – ma non per me. Sono ai domiciliari in albergo, con la musica dei Rem in sottofondo, a tradurre le pagine nuove di Zaillian. Stavolta sono verdi. A riprese cominciate, ogni volta che la sceneggiatura subisce una modifica si usano pagine di un colore diverso, per orientarsi con più facilità. Ci sono già state le blue, le pink e le yellow. Seguiranno goldenrod, buff, salmon, cherry, tan, grey, ivory, orchid. Sono certa che avremo tutti i colori e che alla fine lo script sembrerà il campionario di un rappresentante di vernici. Steven ha cambiato il dialogo tra Pearsall, Starling e Krendler all’FBI, dopo il raid andato male. C’è un pezzo bellissimo in cui Julianne Moore dice a Ray Liotta: ‘I wasn’t speaking to you, Mr. Krendler. When I speak to you, you’ll know because I’ll look at you [non stavo parlando con lei, Mr. Krendler. Quando parlerò con lei se ne accorgerà perché la guarderò]’. Fantastico. E infatti poi Steven nel copione precisa: adesso lo sta guardando.
Quando avrò finito di tradurre dovrò fare le valigie perché dopodomani mi trasferisco a Richmond. Gli altri sono partiti tutti stamattina col pullman; a parte Ridley, Branko, Tony e Julianne, ovviamente, che hanno l’autista personale; io l’autista personale non ce l’ho ma quando Dino non c’è ho il suo a mia completa disposizione. E Dino non c’è. Tornerà fra quattro giorni, è andato ad Amsterdam a ritirare il Life Achievement all’Expo 2000. Glielo consegna John Mostow, che per l’occasione si è fatto scrivere un discorsetto niente male su quanto la sua vita sarebbe diversa se non avesse incontrato Dino. Che scoperta. La vita di chiunque sarebbe diversa, senza Dino. Stavo dicendo che io, a differenza degli altri, parto dopodomani. Visto che ho l’autista tutto per me, ho pensato di sfruttarlo. Oggi mi faccio portare alla National Gallery a salutare la Venere allo specchio di Tiziano – ci sono andata una sola volta da quando sono qui – e domattina ho appuntamento per il tour all’FBI. Poi mi farò accompagnare al cimitero di Arlington e al Lincoln Memorial. Dopodiché, ultima cena al mio ristorante preferito con Marescotti. Giorni fa Branko ha voluto il numero di questo ristorante perché ci voleva portare Ridley. Mi è seccato molto darglielo, visto che sono io quella che si è sbattuta a cercarlo. Ho dedicato tutto il mio primo giorno libero all’esplorazione a tappeto dei ristoranti giapponesi del centro di Washington, poi i giorni seguenti ho mangiato nei più belli, uno al giorno ovviamente, e alla fine ho eletto il migliore: il Japan Inn, sulla Wiscounsin. Ultradivino. Ci ho mandato Dino e Martha e sono tornati entusiasti. Devono essere stati loro a spargere la voce. Domani sera ceno lì per l’ultima volta con Marescotti, che doveva partire per la Grande mela ma è rimasto qui apposta un giorno in più per farmi compagnia, e la mattina dopo con calma raggiungerò gli altri a Richmond. Che a quanto dicono, è uno dei posti più brutti e pericolosi d’America, per cui è normale che non stia morendo dalla voglia di andarci.
Richmond
Ed eccoci nella capitale degli stati del sud, la città americana col tasso di criminalità più elevato e il maggior numero di omicidi per anno, la metropoli circondata da immense foreste verdi dove la violenza impera sovrana e dove in questa stagione si registrano 40 gradi centigradi e 100% di umidità – un inferno, praticamente, ma con un sacco di ossigeno.
Ridley, Dino e Julianne hanno affittato un appartamento a testa fuori dal centro. Tutti gli altri, me compresa, sono ospiti all’hotel Jefferson, uno degli alberghi più belli degli Stati Uniti, stando alla pubblicità che ne fanno. Il Jefferson è a qualche minuto dal centro città e a cinque minuti dagli uffici di produzione e dalle locations principali. Volendo si potrebbe arrivare a piedi dappertutto, ma qui consigliano di spostarsi esclusivamente in macchina, a causa dell’alto numero di malavitosi a spasso per le strade. L’auto che avevano assegnato a me l’ho trovata nel parcheggio privato dell’albergo. Non ricordo nemmeno che macchina fosse, l’ho già rimosso. Appena l’ho vista mi sono precipitata all’ufficio di produzione e ho preteso che mi dessero una Pontiac come quella che ho a Los Angeles altrimenti sarei andata in giro in taxi. Mi sono persino dichiarata disposta a soprassedere sul colore – mi andava bene sia nera che blu. Si sono lamentati un po’ ma alla fine l’ho spuntata perché sono l’assistente del produttore. Me l’hanno data nera (sicuramente per farmi un dispetto, visto che la volevo blu).
L’albergo è effettivamente bellissimo. Da fuori sembra un piccolo castello, ha un’affascinante torre con l’orologio e dei deliziosi terrazzi con le merlature su cui si potrebbe prendere il sole, se ci fosse - ma l’ultimo avvistamento pare risalga a parecchi anni fa. La mia camera è al sesto e ultimo piano. Dalle finestre si vede il parcheggio dell’albergo e tutta la città intorno. Purtroppo non è una gran vista: chilometri di asfalto grigio e tonnellate di lamiera multicolore in movimento.
L’ufficio di produzione è al pianterreno di un ex-obitorio. Al piano di sotto ci sono ancora le sale con le celle frigorifere e le vetrinette piene di vasetti coi pezzi di organi sottospirito – ci gireremo la scena di Lecter che si introduce di nascosto nell’ospedale per rubare la sega da autopsia.
Oltre all’ubicazione non proprio felice, questo ufficio è anche brutterrimo. L’unica stanza con le finestre è quella grande all’ingresso, che ospita gli assistenti generici e le segretarie di produzione, che passano almeno dieci ore al giorno qui dentro. Dalla loro sala parte un lungo corridoio su cui si aprono uno dietro l’altro tutti i vari uffici, piccoli e ciechi: il primo, e quindi quello che prende più luce dalla sala, è l’ufficio di Dino, mentre il mio, che divido con le assistenti di Rid e di Branko, è l’ultimo in fondo e ricorda tanto la cella di Lecter nel Silenzio degli innocenti. Per fortuna ci staremo poco, perché saremo sempre sul set.
***
Sto aspettando Dino per fargli vedere il suo ufficio prima di andare con lui sul set. È arrivato ieri pomeriggio, sono andata io a prenderlo all’aeroporto col suo nuovo autista e l'ho accompagnato al suo appartamento. Che immagino non gli sarà piaciuto. Ci ero stata la mattina a controllare che fosse tutto in ordine e mi ero accorta con orrore che mancavano un televisore col satellite per vedere le partite e un tavolo rotondo per appoggiare i libri, che sono le uniche due cose che gli interessano. Per il satellite mi hanno assicurato che provvederanno al più presto. Quanto al tavolo, invece, pare non ci sia spazio sufficiente.
Dino è stranamente in ritardo. Mi siedo sul muretto davanti all'edificio e aspetto. Finalmente vedo la Lincoln col suo autista, Roy. L’auto si ferma a un passo da me. Dino scende tutto trafelato.
“Elisabetta!” urla, senza nemmeno salutare.
“Salve dottore, come sta?”
“E come sto! Ieri non mi hai lasciato le chiavi!” Dopo cinque minuti di improperi, finalmente ho il quadro della situazione: quando ieri l’ho accompagnato all'appartamento, ho aperto io la porta e mi sono tenuta per sbaglio le chiavi. Così stamattina, quando lui ha fatto per uscire – è una porta senza maniglia, con lo scatto automatico – si è accorto di essere chiuso dentro e ha dovuto uscire dalla finestra, scavalcando. Non poteva neanche chiamarmi perché il suo cellulare l’avevo tenuto io.
“E poi non c’è nemmeno un tavolo, e il satellite per le partite!”
“Il satellite ho già provveduto, glielo vengono a mettere oggi," lo rassicuro. "Il tavolo no, ma tanto vedrà che a casa non ci starà mai.”
“Senti, un’altra cosa: qui non ci sono i giornali italiani, mi sono già informato. Bisogna trovare un modo per procurarseli.”
E risale in macchina. Faccio il giro dall'altra parte, mi siedo di fianco a lui e faccio segno a Roy di partire. Sa già dove deve andare perché mi ci ha accompagnato ieri.
“Ma che fine ha fatto il mio autista di Washington?” mi chiede Dino ad alta voce, tanto Roy non capisce l’italiano (ma se anche lo capisse, farebbe differenza?).
“Non se l’è sentita di venire a Richmond, ha detto che è una città troppo pericolosa. E non è stato il solo. La produzione ha dovuto cercare nuovi autisti per tutti. L’unico rimasto è quello di Ridley.
“Ma questo va troppo piano!”
“E lo dice a me, dottore?”
A me lo dice? Ieri sulla strada per l’aeroporto mi stava facendo venire una crisi isterica. Ha in mano una Lincoln, un’auto con ottime prestazioni, la più bella town car che ci sia. E andava a ottanta all’ora. Ci sono centomila corsie su quella dannata strada, erano tutte libere, e lui stava su quella di destra, a ottanta all’ora. Voi cosa gli avreste fatto a uno così?
***
Dopo tre giorni di sbattimento sono finalmente riuscita a far avere i giornali a Dino. Corriere e Gazzetta: arriveranno ogni mattina da New York con un corriere espresso, a cento dollari al giorno. Un po’ cari, ma d’altra parte lui quando mi ha lasciato la sua carta di credito platino mi ha raccomandato di non badare a spese. Sto andando a dargli questa e un’altra lieta notizia; spero di farlo contento. Ultimamente non l’ho visto contento per niente. Soffre l’umidità di questo posto, la casa gli sta stretta, l’ufficio è scomodo e porta pure sfiga – difficile far digerire un ex-obitorio a un superstizioso cronico -, la macchina del caffè che abbiamo portato da Firenze si è rotta durante il trasporto e qui nessuno sa aggiustarla e l’autista guida piano. Ecco un'altra cosa che voglio fare, trovargli un autista con un minimo di elasticità mentale. Ne parlerò con la direttrice di produzione.
“Doc?” Dino è alla sua scrivania, sta leggendo un trattamento di Altieri per La donna con la pistola.
“Dimmi bella.”
“Venga con me che le faccio vedere una cosa.”
Lui non mi chiede cosa. Posa il sigaro, si mette il cappellino in testa e mi segue placido lungo il corridoio. Lo conduco in cucina, e una volta davanti alla stessa macchina del caffè che avevamo a Firenze, mi metto a preparare un espresso. Dino guarda il caffè che scende nella tazzina e il suo viso spento si illumina come quello di un bambino al luna park.
“Elisabetta, sei un genio. Come l’hai aggiustata?”
“Non l'ho aggiustata. Ne ho comprata un'altra.”
“Ma non ce l’avevano, in America, l’abbiamo fatta cercare.”
“Come no? Ce l’avevano sì. Eccola qui. Milleseicento dollari. C’è tutto in America, basta pagare. E le ho trovato anche i giornali, arriveranno ogni mattina da New York.”
“Non quelli del giorno prima, vero?”
“Certo che no! Ogni mattina, entro le undici, lei avrà i giornali del giorno.”
Dino si gira di scatto e va a bussare alla porta di Scalia, il montatore, che è tra quelli che si sono disperati quando si è rotta la macchina dell'espresso (è di origini siciliane). La porta si apre e Pietro si affaccia.
"Dino!"
“Vieni, vieni, guarda cosa c’è qua! Elisabetta ci ha riportato la macchinetta del caffè!”
Sentendo il trambusto, vengono in cucina anche altri per vedere cosa sta succedendo. Dino, ormai espertissimo dopo tutti i caffè preparati a Firenze, comincia a riempire le tazzine.
“Ecco, il primo lo diamo a Elisabetta, poi a me, poi a te… and you, what’s your name? Rex. Rex, you want coffee? Italian coffee. Toh, assaggia che buono che è.” Ne viene fuori una piccola festa. Con Dino finalmente contento.
***
Richmond è una città particolare. È un po’ squallida, ma ha delle strade meravigliose, e per me che amo guidare è un paradiso. In città vige lo stato di polizia. Non fai in tempo a parcheggiare un attimo in seconda fila che subito ti assaltano. Non si può far niente, ci sono poliziotti dappertutto. Però a noi di Hannibal adesso ci conoscono e ci lasciano in pace. A me, quantomeno. Al mattino parcheggio spesso in divieto perché se non trovo posto non ho voglia di sbattermi a cercarlo per poi magari dover fare cinquanta metri a piedi per arrivare all’ufficio. All’inizio c’era un piedipiatti che protestava; in bicicletta, casco in testa, occhiali, pistola e manganello in vita, si avvicinava con la sua faccia da pirla e mi ordinava di spostarmi, come se stessi dando fastidio a lui personalmente. Poi gli ho promesso di fargli avere la foto con autografo di Julianne Moore, e da allora mi lascia in pace. Mi sto comprando un bel po’ di gente in cambio di foto autografate e pettegolezzi sugli attori. Hopkins ogni giorno in cui vado a chiedergliene un’altra mi dice: ‘Ancora polizia?’ e ride. È un angelo, quell’uomo.
Quanto al lavoro, non c’è molto da fare, a parte rimbalzare dal set all’ufficio di produzione e viceversa aspettando che venga sera. Io e Dino ci siamo organizzati così: lui alle sei del mattino è già sul set, io invece dormo. Alle otto va in ufficio e fa le sue telefonate in Italia. Di lì a poco arrivo io e lavoriamo alla sua biografia. Ovvero: lui fruga nella memoria e mi racconta quello che si ricorda o che gli viene in mente. Io ascolto e butto giù appunti di quello che dice. Poi, mentre lui torna sul set, sistemo gli appunti in prosa e li mando a Tullio Kezich, che li inserirà nella biografia. Quando ho finito vado anch’io sul set, pranzo lì con gli attori e aspetto che Dino torni dal pisolino pomeridiano. Quando arriva gli faccio il riassunto del girato che non ha visto. Quel che resta del giorno lo passiamo sul set a cazzeggiare guardando gli altri che lavorano. Una pacchia.
***
Sono nella editing room, o moviola, il regno del montatore – la stanza di fronte alla cucina. Il plurinominato Pietro Scalia (Il Gladiatore, Io ballo da sola, Will Hunting - genio ribelle eccetera), premio oscar per JFK e un altro per Il Gladiatore mancato per un pelo, mi sta mostrando la sequenza montata con Gnocco che insegue Lecter sotto i portici di piazza Repubblica a Firenze. Anticipo che questo è un pezzo tecnico; se i precedenti vi hanno annoiato, saltatelo. Dicevo: avevo visto i dailies in sala proiezione qualche tempo fa. Erano belli, ma era materiale grezzo, informe. Ridley aveva girato varie inquadrature di questo inseguimento, alcune quasi identiche, altre riprese da diversi punti di vista. Lecter che percorre i portici guardandosi indietro, cambia direzione ed esce sulla strada, torna sotto i portici, si ferma a comprare il giornale e a dare un’occhiata al suo inseguitore, torna sulla strada. Una, due, tre volte. E poi, separatamente, Gnocco che lo insegue passo passo convinto di non esser stato visto. Una, due, tre volte. Quella che sto vedendo ora in moviola, invece, è una scena composta e completa. È un pezzo del film che il pubblico vedrà sul grande schermo. Il lavoro del montatore consiste appunto nel tagliare e mettere insieme pezzi di questa e quella inquadratura e nel costruire la scena. Vi spiego un attimo come funziona altrimenti non mi seguite. Dunque: Ridley gira una scena, poi la gira di nuovo, poi la ripete ancora, immaginiamo che la giri cinque volte, proprio la stessa scena, ripresa dallo stesso punto di vista. Ognuna di queste cinque riprese si chiama take, inquadratura, che non è quello che si vede dentro l’obbiettivo, attenzione, ma l’immagine in movimento, lo spazio di pellicola compreso tra quando il regista dice action a quando dice cut – ovvero interrompe la ripresa. Dei vari takes girati, Ridley marcherà con un cerchiolino, dopo averli visti, soltanto quelli che riterrà soddisfacenti. Immaginiamo che rivedendo il girato gli piacciano la seconda e la quinta inquadratura: Ridley dirà ‘take two and five, print!’ ovvero, stampate la seconda e la quinta inquadratura, quelle col cerchiolino. Quando a fine giornata la pellicola viene estratta dalla macchina da presa, viene mandata con la FedEx al laboratorio di Los Angeles, che svilupperà il negativo e stamperà le due copie indicate da Ridley, ovvero le trasferirà dalla pellicola su una videocassetta (questo processo si chiama Telecine, in italiano telecinema, ma non scendiamo troppo nei particolari), la quale il mattino dopo ritornerà sempre tramite FedEx a Richmond. Lì gli assistenti del montatore, Wes e Rex, ne copieranno il contenuto sul computer. Ed è a questo punto che interverrà Scalia, che con il materiale trasferito sul computer potrà fare quello che vuole, ma lavorerà soltanto sui takes 2 e 5. Quindi la prima scrematura, diciamo così, è del regista. I takes 1, 3 e 4, detti B takes, non vengono buttati via, ma tenuti in laboratorio a Los Angeles. Potrebbero tornare utili nel caso in cui si verificasse qualche ‘buco’, per esempio se nel tagliare una scena insieme al materiale dell’altra camera (il montaggio si fa utilizzando i takes di entrambe le macchine da presa) mancasse un particolare che facesse da collante tra un’inquadratura e l’altra o che è sfuggito ai takes scelti o che era venuto meglio nei B takes ma non era abbastanza importante per giustificare la scelta di quella versione rispetto a un’altra. Finora nel nostro film non è ancora capitato di dover ricorrere ai B takes.
E torniamo a noi. Nella scena dell’inseguimento montata da Pietro, non c’è più Lecter che passeggia lentamente per cento metri, e Gnocco che percorre la stessa distanza a pochi passi da lui. No. Quella che Pietro ha montato è una sequenza veloce, nervosa, piena di suspense. Costruita a stacchi frequenti per dare ritmo, come si fa nelle scene d’azione. Ora c’è Lecter che fa due passi, stacco e subito Gnocco dietro, stacco sul viso di Lecter che si allerta, stacco, l’espressione cauta e nervosa di Gnocco, stacco, Lecter che improvvisamente esce sulla strada, stacco, ritroviamo anche Gnocco sulla strada, stacco, Lecter davanti a un’edicola che guarda Gnocco - l’ha visto! -, stacco, Gnocco e Lecter che si incontrano. Fantastico. Ecco, così si fa il cinema. Non lo capisci fino a quando non sei stato in moviola. Io sono andata spesso nell’editing room a Los Angeles quando montavano U-571. Ma non avevo visto i dailies, e non mi ero potuta rendere conto del salto tra il materiale su pellicola e lo stesso materiale tagliato e montato. Credevo che più o meno le scene venissero girate come le vedevo sullo schermo.
Dall’inizio della mia esperienza sul set, a parte la prima volta in cui ho visto recitare Tony, questo è il momento più emozionante che abbia vissuto. Anche se lavora su un materiale già selezionato dal regista, il montatore è un vero creativo. Se il materiale è buono e lui è bravo, può creare meraviglie. Può fare il successo e l’insuccesso di un film. Se il materiale è scarso, può fare miracoli ed evitare un flop. La responsabilità del prodotto finale è in larga parte anche sua. Non me ne ero mai resa conto, perché finché non lo vedi non te ne puoi rendere conto. Magari lo sai, ma non lo capisci veramente.
Pietro ha anche messo della musica di sottofondo a questa scena, l’inizio di Cross the line di Air Cuba. Ovviamente si tratta di una scelta provvisoria, ma è molto coinvolgente. Lui è fissato con la musica ed è bravissimo a sceglierla. Nel suo ufficio ci sono centinaia di CD, che lui ascolta a tutto volume tra le pareti insonorizzate – per questo ha sempre la porta chiusa – provando e riprovando le combinazioni tra immagini e suoni finché non trova quella adatta. Questa sequenza è fantastica. E la musica non è da meno. Gli chiedo se può registrarmi un cd con una selezione delle sue canzoni preferite. Dice che me lo farà appena avrà un attimo di tempo.
Post scriptum: me l’ha dato il giorno dopo, e a distanza di dieci anni, lo starò ancora ascoltando.
Due settimane dopo
Non si sta poi tanto male a Richmond. Certo, non è Washington, non ci sono i locali che ci sono là e quanto allo shopping non parliamone neppure. Ma ho trovato un ottimo giapponese, anche se a prova di nervi, e l’albergo è bellissimo, ancorché a prova di nervi pure quello. Ve ne racconto una che mi è successa al ristorante giapponese, fresca fresca di ieri sera. Dunque, vado lì ormai da dieci giorni, e chiedo sempre i salmon rolls senza wasabi. Loro ogni volta, dico ogni volta, mi fanno notare che il wasabi nei rolls non ce lo mettono e che quindi è inutile che lo specifichi. Allora ieri sera non l’ho specificato. Mi portano i soliti due piattini da sei rolls ognuno. Assaggio il primo roll. Niente wasabi. Meno male. Mangio anche gli altri cinque, annegandoli ben bene nella soia, poi mi dedico al sashimi. Quando faccio per masticare il primo roll del secondo piattino, mi accorgo che è pieno di wasabi. Chiamo il solito cameriere. Il locale è semivuoto, c’è solo una coppia di avventori all’angolo in fondo, quindi mi sentono tutti molto bene.
“È inutile che mi diciate che non serve ricordarvi di non mettere il wasabi nei rolls,” protesto, “se poi appena provo a non dirvelo me li portate col wasabi!”
No, no, no, no, nulla di quello che vi aspettate. La risposta di quel cretino, davanti all’altro cameriere suo compare e ai due giapponesi sudisti dietro al banco, è stata: “Impossibile che glielo abbiamo detto, perché il wasabi nei rolls ce lo mettiamo sempre”.
So cosa state pensando, che mi stavano prendendo per il culo. Vi dico di no, credetemi. Sono proprio scemi così.
“E com’è che in quelli che ho mangiato finora il wasabi non c’era?” domando.
“C’era,” risponde lui sicuro. “C’è sempre. Non se ne sarà accorta.”
“Guardi, è impossibile che non me ne sia accorta, io detesto il wasabi, proprio per questo mi premuro sempre di assicurarmi che non ce lo mettiate.”
“No, guardi, c’era anche negli altri. Chiediamo al cuoco.” Chiede al cuoco. Il pigmeo con gli occhi a spillo, impettito dietro al banco, ascolta la domanda con attenzione e risponde convinto: “Sì sì, il wasabi lo metto sempre, c’era in tutte e due le porzioni”.
No, ma ci rendiamo conto? Solo perché non potevo vomitarglieli sul tavolo e dimostrargli che il wasabi non c’era! Roba da pazzi. Come se io non sentissi la differenza. Comincio a capire perché il tasso di criminalità in questa città è così alto.
Per fortuna in America il cliente ha sempre ragione e se non gli piace qualcosa può restituirlo senza pagare, e così ho fatto.
Al Jefferson le cose non vanno gran che meglio. Qualche giorno fa mi è entrato un uccello in camera e ho chiamato la reception chiedendo di mandare qualcuno a prenderlo, e loro mi hanno mandato su il conto del frigobar. Quando è arrivato qualcuno a darmi una mano, l’uccello l’avevo già preso e liberato io. E la coperta? Mi mettono quest’orrenda coperta sul letto che non mi serve e finisce sempre per terra. Ho detto mille volte alla cameriera di lasciarla nell’armadio così lei si risparmia la fatica di mettercela e io quella di toglierla. ‘Sì sì va bene’, mi dice, ma la coperta è sempre lì. Un giorno mi ha detto: ‘Ieri non l’ho fatta io la stanza, l’ha fatta Maria, passerò parola anche a lei!’ E la coperta era sempre lì. Alla fine ho messo un cartello nell’armadio e sul comodino, scritto sia in inglese che in spagnolo, dicendo che NON VOGLIO QUELLA COPERTA SUL LETTO!!!!!!!! con tanti punti esclamativi che ti veniva il dubbio che toccando la coperta ti scottavi. Pensate che sia cambiato qualcosa? Ho provato persino a mettere la coperta fuori sul corridoio, e me l’hanno riportata dentro! Oggi ho scritto una lettera al direttore chiedendo ufficialmente la rimozione della coperta non solo dal letto ma dalla mia camera e se possibile dalla città. Vediamo se funziona.
Il fatto è che quest’albergo avrà tutti i difetti del mondo, ma quando esco alla mattina, quando la porta dell’ascensore si apre e mi si para dinnanzi quel walzer di marmi e tappeti preziosi, velluti e broccati, ringhiere in ferro battuto e volte affrescate, cupole e colonne imponenti, legni intarsiati e arredi antichi e statue, un’orgia di opulenza tale da trattenermi per un attimo sulla soglia dell’ascensore prima di uscirne, beh, si può perdonare il servizio pietoso che offre. Non si può avere tutto dalla vita. Anche Rapina a mano armata, uno dei più bei film di tutti i tempi, era in bianco e nero.
***
Dopo aver litigato con un imbecille con una Chrisler nera che voleva parcheggiare al mio posto – okay che è arrivato prima lui, ma ormai è quasi un mese che la macchina lì ce la metto io e niente, oh, non voleva togliersi, roba da matti! – sono ora al telefono con Marcello Tessadri che si sta lamentando di una certa incoerenza nell’impartire istruzioni da parte di Dino. Tessadri sta scrivendo un trattamento per un film sulla marina italiana che Dino ha promesso di fare. A chi l’ha promesso? Alla marina italiana, a suo tempo, prima di girare U-571. Perché? Per farsi prestare gratuitamente il materiale per il film. Da chi? Ma dalla marina italiana, appunto. Potrei sbagliarmi, naturalmente. Ma se così fosse, se Dino volesse davvero fare un film coi sottomarini, perché allora li ha venduti, come mi ha detto l’altro giorno? Vi chiederete: ma perché pagherebbe Tessadri per scrivere il trattamento se sa già che il film non lo vuole fare? Risposta: mica lo paga lui, lo paga sempre la marina italiana.
Ma torniamo a quello che mi sta raccontando Tessadri: gli italiani sono nel porto di New York, circondati dagli americani. Per fortuna c’è un sommergibile parcheggiato proprio lì nel porto, e i nostri riescono a salirci sopra e a scappare. Dino legge l’idea e dice: ‘Questo sommergibile messo lì apposta per riportare gli eroi in Italia non va bene, sembra un taxi, toglilo’. Tessadri lo toglie. Dino legge e dice: ‘Ma come, hai tolto il sommergibile? E come fanno questi a tornare a casa?’.
“Marcello, cosa vuoi che ti dica?” rispondo in tono conciliatorio, “Si procede per tentativi ed errori. Dino non può avere già in mente tutto il film, altrimenti i trattamenti se li scriverebbe lui."
“Sì, ma io che faccio, rimetto il sommergibile? Che poi, parliamoci chiaro, lui si preoccupa della verosimiglianza, ma io sono stato ufficiale di marina per anni, e ti posso dire che in questo film di verosimile non v’è proprio nulla!”
“Non c’è nient’altro con cui i nostri possono scappare?”
“Che ne so… che ci metto al porto di New York, un gommone?”
“Un gommone, fantastico! Quanti sono quelli che devono scappare?”
“Una sessantina.”
“Ah.”
“Eh, appunto. Mi sa che finiranno tutti morti ammazzati, ‘sti poveracci.”
Verso fine giugno
Fish market. La sequenza al mercato del pesce durerà almeno una settimana. Abbiamo cominciato con un giorno di ritardo causa pioggia. È una sequenza d’azione molto complessa, che va ripresa da diverse angolazioni per poter poi essere montata con più stacchi e avere più ritmo. Drumgo scende dalla macchina, saluta Starling che le punta addosso la pistola pregandola di non fare cazzate, estrae il mitra e spara; Starling risponde al fuoco uccidendo Drumgo, poi si avvicina a recuperare il bambino, lo porta su una bancarella del pesce e gli lava via il sangue con una canna dell’acqua. Certo non possiamo far vedere tutte queste azioni da uno stesso angolo di ripresa – posizione del soggetto rispetto alla macchina - e tutte di fila, perché il pubblico si annoierebbe; una scena girata così è inutilmente lunga e manca di dinamismo. Allora che si fa? Si riprende la scena con Starling e Drumgo da diverse angolazioni e distanze, con più macchine da presa; successivamente, in fase di editing, si tagliano e montano piccoli frammenti delle varie inquadrature, i quali integrati con il sonoro e con spezzoni tratti da inquadrature riprese separatamente di personaggi secondari e dell’ambiente circostante – o anche con dettagli come il piede di Drumgo che si posa a terra quando scende dalla macchina – daranno l’impressione di una scena tesa e movimentata senza toglierle unità e continuità. Ecco l’azione. L’emozione, insomma, si crea in moviola.
Questa tecnica di montaggio che compone frammenti di inquadrature diverse per angolazione e scala si chiama decoupage classico. La scala definisce lo spazio inquadrato dalla macchina da presa. Servendoci della scena che stiamo girando ora come esempio, vediamo quali sono le principali varianti di scala: la totale o campo lungo - long shot – è l’inquadratura che mostra l’edificio da cui esce Drumgo, o la panoramica del mercato del pesce. Il campo medio – Medium Long Shot – è l’inquadratura di Starling ripresa tutta intera sullo sfondo ancora ben chiaro del mercato. La figura intera – Full Length Shot – è l’inquadratura che dà risalto alla figura umana isolata dall’ambiente e ripresa da capo a piedi. Seguono altri tipi di inquadrature relativi alla figura umana: piano americano - Medium Shot -, quello da metà coscia in su (dalla tradizione dei film western che riprendevano il cowboy dal cinturone in su per inquadrare il movimento di estrarre la pistola), primo piano – Close up -, da metà busto in su, primissimo piano – Extreme Close up -, solo la faccia, infine il dettaglio – Insert -, che può essere un particolare della faccia tipo la bocca spalancata di Starling che urla o anche un oggetto, come il mitra di Drumgo per terra. A parità di scala, l’inquadratura può avere caratteristiche completamente diverse a seconda degli obbiettivi che si usano, con focali lunghe o corte che rallentano o accelerano i movimenti, restringono o allargano lo spazio e assegnano un diverso valore espressivo alle immagini. Ma non voglio farvi fare indigestione di informazioni tecniche. Andiamo avanti.
La preparazione del set è stata molto laboriosa. Abbiamo utilizzato un’area dismessa con strade e ferrovie che corrono sopra e intorno ad essa e che a volte viene usata come parcheggio, e ci abbiamo messo le bancarelle coi pesci veri, la frutta vera, insomma ne abbiamo fatto un mercato vero. Un invito a nozze per le mosche, che si sono presentate in squadroni unendosi agli sciami di zanzare che già popolavano il luogo prima che arrivassimo, visto che siamo vicini al fiume – il James River, che scorre a sud.
La scena prevede azioni parecchio movimentate e persino scontri di automobili, e il risultato è un sacco di polvere che si alza dal suolo terroso, oltre alla puzza infernale, al caldo implacabile e al piccolo inconveniente degli insetti di cui ho appena detto. Insomma, un inferno. Roba che alla sera sembri uscito da un water pieno di escrementi nel cesso peggiore della Scozia come quello di Trainspotting e ti tocca stare tre ore sotto la doccia.
La cosa interessante è quando sparano. Le armi sono caricate a salve e per questo fanno più rumore che se sparassero il proiettile vero, quindi durante le sparatorie si indossano le cuffie isolanti – o ci si tappa le orecchie con le mani, se si capita sul set all’ultimo momento. Quando l’arma è puntata verso l’obbiettivo che riprende – posizione che si chiama ripresa verso macchina, o in macchina -, davanti alla camera vengono sistemate delle lastre di protezione di plastica per impedire di impallinare i cameramen – cioè, non proprio di impallinare, visto che non esce niente, ma un po’ di polvere da sparo può sempre schizzare e oltre a rovinare l’obbiettivo, pare che addosso faccia male.
Uno degli stunt si è prodotto in un atto eroico, facendosi investire da una macchina in corsa. Ha fatto un volo micidiale sul cofano, sbattendo contro il parabrezza e volando poi via di lato. Questa inquadratura rimarrà sicuramente nel film, e tutti penseranno che sia un trucco, invece è vera. E quella macchina andava pure parecchio veloce! Mi hanno detto che qualcuno ha commentato: ‘Ma chi è che guida, Elisabetta?’ Spiritosi.
Infine il bambino, quello che urla in braccio alla mamma morta tutto sporco di sangue. È di silicone. Telecomandato, come tutti i neonati che si vedono nei film.
Ventisette giugno
“ELISABETTA!”
Dino. È appena arrivato in produzione dopo il riposino del pomeriggio. Mi chiama nel momento in cui varca la soglia, prima di entrare nel suo ufficio, gridando in modo che possa sentirlo ovunque mi trovi.
“ARRIVO!!” grido io, che al momento sono in cucina a prendermi una Coca. Nel frigo c’è un megacartello appiccicato a un cartone di birra Work con una scritta color rosso sangue: ‘RIDLEY’S BEER!!!!!!!’ I punti esclamativi mi fanno venire il dubbio che nei giorni scorsi qualcuno gliel’abbia ripetutamente finita.
Dino mi raggiunge in cucina. Porta l’apparecchietto a un orecchio per supposti problemi di udito, ma guarda caso è riuscito a capire esattamente da dove giungeva la mia voce.
“Bella… che fai? Bevi la Coca Cola? Che schifo, sempre a bere quella robaccia. Mettiti al lavoro, forza. Sono arrivate le pagine di Steven con i due finali. Le devi fare subito, di corsa!”
“Eccomi! Dove sono le pagine?”
“Adesso te le porta la segretaria.”
“Okay, vado nel mio ufficio ad accendere il computer intanto.”
Lui mi segue, mi guarda mentre accendo il portatile per assicurarsi che lo stia effettivamente accendendo e che non perda un secondo a farlo dopo.
“Quanto pensi di metterci?”
“Quante pagine sono?”
“Steven ha detto tre o quattro.”
“Mezz’ora al massimo, se le vuole fatte bene.”
“Brava.”
Questo del finale è veramente un incubo. L’idea nell’aria è che Lecter, che Starling ha ammanettato insieme a lei per poi buttare la chiave nello scarico del lavandino (costringendolo così o a fuggire insieme a lei o a restare lì con lei, uniti nel bene e nel male), dicevo Lecter, per scappare, è costretto a tagliare o il polso di lei o il suo. Ovviamente il personaggio di Thomas Harris non si taglierebbe MAI un polso. E infatti Tom è disperato e telefona quattro volte al giorno per avere notizie della decisione che verrà presa al riguardo. Io mi sono limitata a far notare che se un attrezzo riesce a spezzare l’osso di un polso con un colpo secco, probabilmente riesce a spezzare anche le manette. Qualcuno ha mostrato di prendere in considerazione il problema, ma poi la cosa è stata lasciata cadere, a vantaggio della soluzione secondo cui appunto Lecter, per amore, piuttosto che tagliare il polso a lei, se lo taglia lui. E sapete di chi è stata questa bella pensata? Di Ridley!! Tom non è l’unico a non essere d’accordo. Anche Dino non lo è, e ancor meno Anthony Hopkins. Ci ho parlato stamattina, ci siamo incontrati nell’ascensore dell’albergo. Mi ha detto che lui non si capacita di una scelta del genere e che si opporrà in tutti i modi.
L’altoparlante strilla l’avviso COMPANY WRAPPED SIX TEN! Ovvero: la troupe ha terminato le riprese alle sei e dieci (ogni giorno un assistente alla regia comunica all’ufficio l’orario esatto di inizio e fine delle riprese. Il verbo ‘wrap’ significa ‘avvolgere’, e si usa per indicare il termine della giornata lavorativa perché a fine riprese si riavvolge la pellicola). Sei e dieci; strano che abbiano già finito di girare a quest’ora. Probabilmente stasera c’è la proiezione. Finiscono sempre un po’ prima quando devono venire in produzione a vedere i giornalieri, il che accade un paio di volte alla settimana, più o meno. La proiezione dei giornalieri serve al regista, al produttore, al direttore della fotografia e al montatore per avere un’idea di che effetto faccia il materiale girato sul grande schermo.
Qualche minuto dopo arrivano Ridley, John Mathieson, Terry Needham e Branko Lustig. I quattro moschettieri. Io sono sulla porta del mio ufficio e Ridley mi saluta appena mi vede. Mi saluta anche quando potrebbe benissimo farne a meno, tipo quando mi ha vista dieci minuti prima, o mentre sta parlando con qualcuno. Non lo fa solo con me, sia chiaro. Lo fa con tutti, perché è educatissimo. A Milano diremmo: non se la tira per niente. E fa bene. Che bisogno avrebbe?
Branko si ferma davanti a me: “Where is the old man? [Dov’è il vecchio?]” mi chiede. Chiama sempre Dino ‘old man’, come se lui fosse tanto più giovane. È simpatico, però. E molto bravo nel suo lavoro, un vero squalo, dicono.
“È da Scalia, se hai un attimo di pazienza adesso arriva.”
“No, no, non lo voglio vedere. Te lo chiedevo per sapere come evitarlo.” Rido. Anche Branko ride.
In effetti Dino a volte è un po’ stressante. Adesso per esempio è andato a rimproverare Scalia perché il film sta venendo troppo lungo. C’è chi malignamente sostiene che preferisca i film brevi perché con quelli lunghi s’incassa meno, visto che si possono fare meno proiezioni in sala. Lui insiste che i film lunghi annoiano il pubblico. Vero. Ma se sono belli no. Basta pensare a The Green Mile, tanto per citarne uno recente che non è di Dino. O a Dune, di David Lynch: era un capolavoro, ma Dino l’ha fatto tagliare così tanto che alla fine non si capiva più niente e la pellicola, costatagli una fortuna, è stata un flop. Dino ha poi ammesso di aver sbagliato, in quel caso, anche perché i soldi che ci ha perso (tantissimi) erano i suoi, e infatti per il film successivo, Velluto Blu, ha lasciato che Lynch facesse come gli pareva, ed è andato benissimo al botteghino. Quindi perché non lasciare un po’ più di libertà creativa a registi e montatori? Che poi è vero che Pietro è quello che ‘taglia’, ma in ultima analisi è Ridley che decide. Le scene assemblate dal montatore sono sempre provvisorie, perché vanno sottoposte al vaglio del regista che si riserva di approvarle o meno, quindi perché colpevolizzare Scalia?
Busso all’editing room ed entro prima di sentire ‘avanti’ – ho imparato da Dino, lui fa sempre così. Pietro e Dino si voltano verso di me.
“Dottore, la vogliono al telefono. Stacey Snider.”
“Arrivo subito,” risponde. Poi si gira verso Scalia e puntandogli l’indice gli dice: “Tu aspetta che non ho finito con te”. Rivolgo uno sguardo comprensivo a Pietro: “Ti dà il tormento, eh?” Lui allarga le braccia: “Vuole fare tutto lui. Tutto lui. Se potesse preparerebbe anche i pasti alla crew.”
Carina come battuta. Gliela copierò.
***
Venne la sera ed abbuiò le strade, scriveva Pascoli. Sì, una volta! Adesso con tutti questi semafori il buio te lo sogni! Mi sono appena fermata involontariamente a un semaforo di Broad Street. E questo perché la minorata mentale davanti a me si è fermata col giallo, ed io, che procedevo pacifica per la mia strada guardandomi in giro, mi sono ritrovata addosso al posteriore della sua maledetta macchina.
Per fortuna la mia Pontiac non si è fatta niente. La sua auto invece ha il paraurti e il baule ammaccati, ma tanto c’è l’assicurazione, dove sta il dramma? Niente, la spastica ha voluto comunque chiamare la polizia, e ha pure il coraggio di fare l’incazzata per il colpo che dice di aver preso al collo.
Ed ecco un poliziotto, finalmente. Sirena accesa, accosta al marciapiede, mette le quattro frecce e scende con aria competente.
“È sua la Pontiac nera?” mi domanda. Annuisco.
“E la Acura Integra invece è sua?” chiede all’ipodotata. Come al ristorante quando si è in due e il cameriere arriva con due piatti e dice ‘Le tagliatelle per chi sono? E il risotto?’ PER CHI DIAVOLO VUOI CHE SIA, IDIOTA!
“Qualcosa da dichiarare? Vuole cominciare lei?” Illustro la mia versione dei fatti, dicendo semplicemente che non potevo aspettarmi che quella si fermasse col giallo.
“È obbligatorio fermarsi col giallo, miss,” risponde il piedipiatti.
“Sì, lo so, ma andiamo, ci si potrebbe fare una partita di calcio a quest’incrocio, a quest’ora!”
Lui sorride e mi chiede un documento. Gli do la patente, specificando che sono italiana e che ovviamente i nostri documenti sono diversi dai loro. Lui dice che aveva capito che non ero americana perché i tamponamenti ai semafori coinvolgono sempre europei. Eh certo, perché nessuno proveniente da un paese civile si fermerebbe col giallo!
L’agente guarda la foto, i dati, poi gli cade l’occhio sui bollini che noi italiani siamo invitati ad appiccicare annualmente sulla patente in cambio di 70.000 lire e dice:
“Lei è stata in un sacco di posti, eh?” Jesus Christ! Crede che quello che ha in mano sia il passaporto! Non vado avanti a raccontarvi questa scena perché la polizia di Richmond potrebbe prendersela a male. Inoltre, non è giusto infierire sui più deboli.
***
Sto accompagnando una giornalista dell’Hollywood Reporter a intervistare Dino, sul set. La nota rivista di cinema vuole dedicare un redazionale a uno dei più grandi produttori del mondo. Siamo nella town car del capo, sedute dietro. L’intervistatrice ha una faccia poco intelligente, si chiama Beth. Però è simpatica. Mi confessa che Dino le mette soggezione, anche per quello che i registi dicono di lui. La rassicuro dicendole che fa questo effetto a tutti, e quando mi chiede se intanto che siamo in viaggio può farmi qualche domanda accetto di buon grado.
Lei accende il registratore e lo appoggia sul sedile tra me e lei.
“Mi racconti come ha conosciuto Dino, che impressione le ha fatto la prima volta che lo ha visto, che tipo è, com’è lavorare con lui…”
Ho sempre sognato che mi facessero questa domanda. Finalmente posso dire a qualcuno quanto Dino sia straordinario. Le racconto di come ci siamo conosciuti. Lei si diverte molto ad ascoltare. È brava anche a fare le domande. In venti minuti riesco a dirle un sacco di cose, dimenticando che sta registrando tutto.
“È un istintivo. Ripete sempre che il suo è un mestiere di pubbliche relazioni, e in fondo è vero.
“Rispetta molto i registi con cui lavora ma rispetta di più gli sceneggiatori. Per lui la cosa più importante di un film è la storia, la sceneggiatura, il regista ha una parte molto più facile.
“Ama molto la famiglia ma ritiene che occuparsene non sia compito suo. Quando deve parlare con le figliolette le convoca in ufficio come fa con agenti, registi e sceneggiatori. Sta cercando di convincerle a studiare il cinese, dice che è la lingua del futuro.
“No, non legge bene l’inglese ma lo capisce benissimo. E lo parla anche bene. È tanto self-confident da non avere nessun timore a inventarsi parole che non esistono, quando serve. […] Sono gli altri che devono sforzarsi di capire lui, non lui che deve sbattersi a parlare meglio. […] Un po’ ci gioca con le difficoltà della lingua. Guarda caso non capisce mai le cose che non gli piacciono.
“È poco sentimentale, poco paziente e molto pratico.
“È quello che voi americani chiamate one-show man. Vuole fare tutto lui. Se potesse preparerebbe anche i pasti alla crew.
“No, non porta gli occhiali, ci vede ancora benissimo.
“Ama le bretelle colorate, anche se a volte esagera, tipo quando mette quelle rosse sulla camicia rosa shocking.
“Anche l’emozione più grande, per lui dura pochissimo. Inizia subito a pensare ad altro. Sta sempre avanti con la testa. Adesso che stiamo girando Hannibal lui pensa già a Red Dragon.
“È molto superstizioso. Ma la storia che non ci si può vestire di viola in ufficio non è vera. Io lo faccio sempre e non se n’è mai neppure accorto.
“Il denaro è un mezzo, non un fine. Ne guadagna tanto ma ne investe altrettanto. È un uomo coraggioso e molto generoso. Ha prestato spesso dei soldi ai dipendenti, che non gli sono mai stati restituiti.”
Questo potevo non dirlo. Speriamo che non lo scriva. Meno male che siamo arrivate, prima che io debordi ulteriormente. Tutto sommato però, credo che si sia fatta una buona idea, del mio capo.
5 luglio
Questo weekend sono andata a New York. Ho festeggiato lì il giorno dell’Indipendenza, insieme a Ivano Marescotti, che mi ha gentilmente ospitata e portata sul tetto della casa dei suoi amici, nell’East End, a vedere i fuochi. È stato bello. Oggi invece, 5 luglio, giorno del mio compleanno, alle cinque e mezza del mattino ero sola a un incrocio tra la quinta e l’ottantottesima a chiamare un taxi, e mezz’ora dopo al La Guardia a prendere un aereo che doveva riportarmi a Richmond in modo da essere in ufficio per la solita ora. Lì ho lavorato tutto il giorno senza che nessuno mi facesse gli auguri – nessuno sapeva che compivo gli anni -, e stasera sono venuta al solito giapponese con la mia amica Mary. Stiamo chiacchierando piacevolmente dei fatti nostri quando un tizio si avvicina al nostro tavolo.
“Ciao ragazze, come va?” Alzo lentamente la testa dal piatto e lo guardo come guarderei un piccione che mi ha appena sporcato il vetro della macchina. È uno che avevo già notato prima seduto al banco del bar a chiacchierare col barista. Porta delle ciabatte infradito nere coi bermuda di jeans. Impossibile non notarlo, uno che la sera va in giro con le Havaianas.
“Ciao!” Mary lo saluta con entusiasmo. Dev’essere un suo amico.
“Vi conoscete? Lei è Elisabetta, lui è Matt.”
“Piacere,” dico con aria di sufficienza
“Venite spesso qui?” chiede lui. Che cavolo gliene importa?
“Sì, vieni qui anche tu?” gli chiede Mary. Probabilmente le piace. Non vedo altra spiegazione.
“No, sono solo venuto a fare due chiacchiere col mio amico,” e indica il tizio giallo con cui stava parlando prima.
“Okay, buona continuazione allora.”
“Grazie, ci vediamo domani,” cinguetta Mary.
Il tizio finalmente si schioda.
“Ci vediamo domani?” le chiedo.
“Lui lavora al film, è il camera loader."
“Ah.”
Cerco di riprendere la conversazione al punto in cui l’avevamo lasciata, ma la mia amica ha la testa da tutt’altra parte da quando quel tipo è venuto a salutarci. Mah.
***
Stiamo girando la coda del film, la scena di Lecter sull’aereo che fa assaggiare un pezzo di cervello al bambino. La coda è una scena accessoria per concludere il film ‘in bellezza’, e differisce dall’epilogo in quanto non aggiunge informazioni necessarie alla storia. Hannibal che telefona a Clarice in chiusura del Silenzio degli innocenti, per esempio, è una coda e non un epilogo, perché com’è andata a finire la vicenda si capisce comunque anche senza quella telefonata. E lo stesso vale qui.
Ridley non è soddisfatto della performance del bambino asiatico, e gliel’ha fatta ripetere un sacco di volte. Alla faccia della pellicola sprecata. E non vuole essere una battuta, questa. Le strisce di celluloide non sono un prodotto a buon mercato. Costano, e costano parecchio. Un rullo di pellicola da 35 millimetri – il tipo che si usa per i feature films che, come ho detto, sono i film destinati al grande schermo - è lungo 300 metri, anzi 305 per la precisione, dura circa dieci minuti, e costa quasi un milione di lire. Ce ne vogliono trenta/trentacinquemila metri per fare un film medio. Hannibal ne avrà probabilmente usati duecentomila perché è una produzione ricca e anche se Ridley è un regista preciso e sicuro di sé, sa che da contratto può permettersi di usare più pellicola e giustamente quando ritiene che serva ne approfitta. La quantità di pellicola che si può usare viene stabilita nel contratto tra regista e produttore e si chiama rapporto di ripresa. Il rapporto di ripresa definisce il rapporto tra la quantità di pellicola utilizzata nelle riprese di un film e la lunghezza totale del film finito – in the can, si dice in gergo, perché il ‘can’ è la scatola di metallo in cui viene riposta la pellicola originale prima di essere sviluppata e stampata. Un rapporto tipo 4:1 è considerato basso, e viene chiamato dispregiativamente ‘sistema polacco’, anche se ha il vantaggio di far risparmiare un sacco di soldi alla produzione. Il vantaggio di poter usare più pellicola è quello di poter dedicare minor tempo alla preparazione delle scene visto che, se anche qualcosa non dovesse andare, la scena si può girare di nuovo. Nelle produzioni piccole, invece, dove il costo per la pellicola fa la differenza, le scene vanno preparate con la massima cura in modo da doverle girare meno volte possibile e risparmiare sui metri di celluloide. Cosa che, ripeto, fa anche Ridley pur avendo a disposizione tutta la pellicola che vuole. Nanni Moretti, per fare un esempio, è il suo opposto. Mi hanno detto che è un insicuro cronico, e che fa girare delle scene anche sessanta volte perché non sa nemmeno lui quello che vuole. Moretti è la manna dal cielo dei commercianti di pellicole.
***
‘Elisabetta, accetti un invito a cena?’ mi ha detto Dino oggi pomeriggio. Martha ha un impegno inderogabile e lui detesta stare da solo. Così siamo finiti in questo ristorante cinese in Carey Street. Dino adora il cinese, anche se mangia solo gli spaghetti di soia. A me non piace particolarmente, invece. I camerieri ci hanno servito subito senza che ordinassimo, segno che Dino è già stato qui altre volte. Poi quello che sembrerebbe il proprietario ha chiesto a me se gradissi qualcos’altro di particolare. Il mio capo ha risposto ‘falle assaggiare tutto’ e mi hanno portato una quantità di piatti improponibile. Non ce la farò nemmeno ad assaggiarli tutti.
La parte più bella della cena è ascoltare Dino che mi racconta alcuni aneddoti della sua lunga vita. Una volta a Montecarlo, quando aveva la mania del gioco, è riuscito a perdere un milione di dollari allo chemin de fer, e un’altra a vincerne due. Ha smesso di giocare dieci anni fa, quando ha visto i Casinò di Las Vegas. Dice che sono squallidi. A New York invece, al Plaza, che è forse l’hotel più lussuoso della città, a sua moglie Silvana Mangano hanno rubato un enorme rubino che le aveva regalato lui, un anello di Buccellati, il suo gioielliere. Lo aveva lasciato in camera. Il tempo di arrivare alla hall, ricordarsene e tornare indietro, e l’anello era già sparito. A un certo punto ci ritroviamo a parlare di Ray Liotta, forse perché l’abbiamo incontrato in giro da solo, qualche giorno fa.
“Se ti piace datti da fare, conquistalo!” mi esorta Dino.
“Chi ha detto che mi piace? Ma proprio per niente. E poi ha 45 anni ed è sposato.”
“E allora?”
“Come e allora?”
“Beh, sai cosa ti dico? Sai chi ti dovresti sposare tu? Scott.”
“Ridley Scott?”
“Macché! Ridley potrebbe essere tuo nonno. Parlo del nostro Scott dell’ufficio di Los Angeles, Scott Browning.”
Faccio una smorfia.
“Perché, che ha che non va?”
“Niente, non ha niente che non va, anzi siamo amicissimi, ma non mi piace.”
“E perché no? Che ha che non ti piace?”
“Non lo so… non è il mio tipo.”
Dino fa una smorfia spazientita e allontana il piatto da sé.
“Quante ne andate cercando, voi donne. Scott è intelligente, alto, guadagna bene, andate pure d’accordo, che vuoi di più?”
“Ma io non voglio proprio niente, guardi, sto benissimo come sto.”
“Sai a chi potremmo chiedere? A Raffaella. Mia figlia è bravissima ad accoppiare quelli spaiati. Domani la chiamo.”
“Dottore, non è necessario, io sto benissimo da sola!”
“Ehi, guarda chi c’è! Non lavora con noi, quello?”
Mi volto. Sono appena entrati Klemens e la moglie, tutti vestiti eleganti, per una cena romantica. Lui ci ha visti benissimo ma ha distolto immediatamente lo sguardo come a dire ‘io non ho visto niente’ e sta andando a sedersi al tavolo più lontano da noi.
“Sì, è Klemens, l’A camera operator e steadycam operator,” rispondo a Dino.
“Ah. È bravo con la steadycam, e pensa che è tedesco. Ma che fa, non saluta?”
“Penserà di averci colti in flagrante e starà cercando di essere discreto.”
“Eh…” Dino scuote la testa, “se fossi stato con tutte le donne con cui la gente ha pensato che sono stato, sarei superman.”
“Sì, pure io,” commento. Ci guardiamo un attimo, io e Dino, come uniti nella comune disgrazia, poi scoppiamo a ridere.
***
Sono in albergo col mal di pancia. Ho telefonato a Dino stamattina presto per dirgli che oggi non mi presento perché non sto bene, ma che posso comunque lavorare in camera al Jefferson, visto che il computer e il telefono li ho anche qui. Lui mi ha fatto chiamare dalla segretaria tre minuti fa, per chiedermi se domani posso andare in ufficio un’ora, solo un’ora, non di più, per una cosa urgente. Interdetta, lo chiamo immediatamente:
“Dottore guardi che non sto morendo.”
“E perché non sei venuta a lavorare, allora?”
“Perché devo andare in bagno ogni quarto d’ora.”
“Che c’hai, la cacarella?”
“Quindi stia tranquillo che domani sarò in ufficio, okay?“
“C’hai la cacarella?”
“E se ha bisogno può chiamarmi anche oggi quando vuole.”
“Sì o no?”
“Cosa?”
“Ce l’hai o no?”
“Sì!!”
“Eh, c’hai la cacarella, e dillo no? E per forza, con tutto quel pesce crudo che mangi!” Mi astengo dal ricordargli che potrebbe non essere il pesce crudo, visto che lo mangio tutti i giorni, ma quel centinaio di piatti che mi ha fatto assaggiare ieri sera. “Allora, sentimi bene,” continua lui, “ti devi far portare da quelli dell’albergo, chiama la reception e fatti passare la cucina, ti devi far portare il riso bianco bollito, ri-so bol-li-to, ci metti un po’ d’olio e te lo mangi, hai capito?”
“Okay.”
“Ma fallo! Non mi dire ‘okay’ e poi fai come ti pare come al solito! Hai capito?”
“Sì!”
“Oh, bene. Guarisci, ciao.” E chiude. Dopo un secondo richiama. Ho ancora il telefono in mano.
“Sì dottore.”
“Fatti portare solo il riso, non il riso col sushi. Oggi ti mangi solo il riso bianco. Ciao.” E richiude.
***
Ospedale. In realtà, obitorio. Quello sotto al nostro ufficio. Stiamo girando la scena in cui Lecter si introduce travestito da chirurgo in una sala operatoria e ruba la sega da autopsia.
Finisco una telefonata e vado al piano inferiore a vedere le riprese. Nel corridoio incontro Mary, che mi dice di ricordarmi di Ciro. È un tizio che piace alle sue amiche dell’amministrazione, ma io non ricordo chi sia. Non ho mai notato nessuno di carino nella crew. Ho chiesto cosa fa, ma non lo sanno, sanno solo che si chiama Ciro e che lavora sul set, e vorrebbero da me qualche informazione in più. Boh. Adesso scendo e vedo.
“Perché non vieni giù con me? Così me lo fai vedere,” propongo.
“Ma non posso…”
“Eddai un attimo,” insisto. “Non ci farà caso nessuno.”
Scendiamo. Lo spazio nel seminterrato è piccolo, la gente parecchia, e manca un po’ l’aria, oltre a fare un caldo micidiale perché qui non c’è l’A/C. Tutti sono in silenzio. Tra poco gireranno la scena.
“Allora, chi è Ciro?” chiedo a Mary a bassa voce. Lei cerca con lo sguardo, lo trova e me lo indica.
“Il ciakkista!” esclamo. “Sei sicura?”
“Certo che sono sicura.”
Aspetto di incrociare lo sguardo di Ciro e gli faccio segno di avvicinarsi. Lui si scusa con l’assistente alla regia con cui stava parlando e mi raggiunge immediatamente.
“Hi Elizabeth!” mi dice con un sorriso 128 denti.
“Tu sei Ciro, giusto? C’è per caso un altro Ciro, qui?” gli chiedo, non convinta. Mary si allontana imbarazzata.
“No,” dice lui ridendo come se da me queste stranezze se le aspettasse, “ci sono solo io.”
Mah. Non mi pare questa gran bellezza. Occhio verde, viso rotondo. Somiglia un po’ a Di Caprio, quel genere lì.
Mah. Non mi pare questa gran bellezza. Occhio verde, viso rotondo. Somiglia un po’ a Di Caprio, quel genere lì.
“Perché me lo chiedi?”
“Perché alcune ragazze di sopra mi hanno detto che sul set c’è un fico spaziale che si chiama Ciro.”
“E secondo te non posso essere io, vero?”
Sorrido. “Senti, perché non ti fai un giro su in produzione così le fai felici? Te le presento.”
“Io veramente--,” si blocca, vedendo la mia faccia, “okay, okay, appena ho tempo salgo, promesso.”
“Bravo. Ciao.”
Mary sta parlando con un tizio, la raggiungo per dirle che vado a sedermi accanto a Ridley.
“Ciao,” mi dice il tipo che sta parlando con lei.
“Ciao,” rispondo, gentile.
“Segui le riprese anche oggi?” chiede.
“Sì, con Dino ho già finito. Io sono Elisabetta, tu ti chiami invece?” Non che me ne freghi niente, anche perché fra un secondo me lo dimentico. Tanto per essere educata.
“Io sono Matt.”
“Matt. Piacere, Elisabetta.” Lui mi guarda in modo strano, poi guarda Mary; i due si scambiano un sorrisetto ironico e mi guardano, sempre sorridendo.
Che cazzo vogliono?
***
Quella che giriamo in questi giorni, invece, diventerà la scena cult del film. Non ci vuole un genio per dirlo, perché era già la scena cult del libro di Tom. Parlo della cena a base di cervello.
Il set è già attivo da un paio di giorni ma io è la prima volta che ci vengo. Ho lavorato un po’ a un romanzo che sto traducendo per Feltrinelli perché sono veramente indietro. Dunque, siamo a casa di Krendler, ovvero in una casa privata che i proprietari hanno affittato alla produzione per girare questa scena del film. È una cosa che io non farei mai. Affittare casa mia a decine e decine di estranei che ti spostano tutto, ti toccano tutto, e invadono il tuo spazio personale – o almeno due stanze di esso, cucina e soggiorno - con le più svariate diavolerie. Si prendono un sacco di soldi, è vero. Ma non mi pare uno scambio accettabile. Le attrezzature per questa scena sono pazzesche. Innanzitutto il dummy, il pupazzo. Un Krendler tale e quale a Ray Liotta, telecomandato, assolutamente identico a lui, tanto che la presenza del Liotta umano è pressoché superflua. E poi la macchina per il motion control. Si chiama motion control rig e ha dimensioni tali da occupare praticamente tutto il salone. È arrivata da Londra insieme ai tecnici specializzati a usarla, che ci si affaccendano intorno pestandosi i piedi nel poco spazio rimasto. Sarà lunga almeno cinque metri. Questa macchina permette di ripetere all’infinito la ripresa in modo esattamente identico a quella di riferimento, perché registra tutto il percorso del braccio della camera e può ripeterlo avanti e indietro quante volte si vuole con assoluta precisione. Mi sto ripetendo? Sorry. Ecco cosa faremo: prima metteremo il Krendler vero sulla sedia a rotelle con un cappuccio verde in testa tipo cuffia da nuoto. Poi al suo posto metteremo il dummy a cui Lecter taglierà la scatola cranica e aprirà il cervello. Le due riprese verranno successivamente sovrapposte l’una all’altra, e il risultato sullo schermo sarà di vedere il vero Krendler, che parla con la sua bocca e ammicca coi suoi occhi e tutto quanto, con il cranio aperto. Chiaro? Ovvio che per far coincidere perfettamente le due serie di immagini, per fare in modo che il cranio aperto del dummy si sovrapponga precisamente al cappuccio verde di Krendler, ci vuole la macchina per il motion control.
Do un’occhiata in giro. Ridley è in cucina a trafficare col dummy. Mi avvicino a guardarlo. Ha il cervello già scoperto – il pupazzo, non Ridley - e fa alquanto impressione. Ma più del cervello fa impressione la faccia. È assolutamente uguale a quella di Liotta ed è curata nei minimi particolari, con la peluria sul viso, un po’ di barba, le sopracciglia… chissà a Ray che effetto fa. Mi è passato accanto in questo momento, in canottiera, e mi ha guardato con un’aria serie ‘e questa chi diavolo è?’ Ha le braccia bianchissime e un po’ flaccide e i brufoli sulla schiena. Che schifo.
Qui in cucina sono tutti indaffarati, quindi me ne torno di là per non essere d’intralcio. In soggiorno, Tony Hopkins è seduto al trucco, circondato da tre persone. Gli faccio un gesto di saluto con la mano, lui mi fa segno di avvicinarmi. Indossa già il tux nero, l’abito elegante che sfoggerà per la cena, e i truccatori gli stanno mettendo del sangue – finto, ovviamente - ai lati della bocca.
“Come stai uccellino?” [little bird]
“Bene, grazie. Scusa se non ti ho salutato prima, stavi lavorando."
Lui sorride e mi dice con dolcezza di non preoccuparmi perché quello non è lavoro. Mi sorprende che Tony voglia chiacchierare con me. È un uomo timido, schivo, che non parla mai con nessuno, che sta sempre per conto suo. Quando non lavora passa il tempo in attività solitarie come correre o guidare per ore o suonare il piano. La domenica va alle riunioni degli alcolisti anonimi per riconoscenza verso l’associazione che sedici anni fa lo ha liberato dall’alcolismo, e nelle pause sul set di solito si mette in un angolo a leggere. Eppure quando mi vede mi chiama sempre per fare due chiacchiere.
“Hai visto il cervello?” mi chiede con la voce di Lecter.
“Sì, che schifo. Sembra vero.”
“È vero. È di uno che ho ammazzato ieri sera in hotel, stava disturbando dalla camera accanto e non riuscivo a dormire.”
“Smettila di fare quella voce, dai!” gli dico. Lui chiede ai truccatori il permesso di alzarsi. Loro si allontanano.
“Vieni fuori con me?” Sempre con quel sorriso, non da Tony, ma da Hannibal.
“Grazie, come se avessi accettato ma no, grazie.”
Tony non mi mette più soggezione perché ormai abbiamo passato un sacco di tempo insieme e pranziamo insieme tutti i giorni quando siamo sul set. Però continua a farmi impressione quando impersona il personaggio di questo film perché lui non fa Hannibal Lecter, lui è Hannibal Lecter. E siccome sa che mi fa paura, si diverte un mondo a farmi gli scherzi. Adesso sta facendo quel sibilo a denti stretti che fa Lecter quando mima il mordere qualcuno.
“La smetti?” In quel momento sento la voce del ciakkista. “Ah, iniziano a girare, io vado a vedere,” gli dico, e torno di corsa in cucina. Questa scena voglio vederla tutta. Liotta sulla sedia a rotelle, scena delicatissima.
“Stand-by, and…” Needham allerta i cameramen. Noto che Ray Liotta sta guardando me e qualcuno dietro di me, e a un certo punto gli scappa un mezzo sorriso. Mi giro lentamente per capire che diavolo ha da sghignazzare e con la coda dell’occhio vedo i denti e la bocca insanguinata di Lecter a un centimetro dalla mia faccia. Nello stesso momento mi sento il suo fiato sul collo e due mani che mi stringono la vita come tenaglie. Nell’istante che passa tra lo spavento e il rendermi conto che è sempre Hopkins che fa il cretino, mi scappa un urlo.
Ridley si gira a guardare cosa diavolo succede. Vorrei sprofondare.
“Scusa Ridley. Io… mi dispiace, ma è lui che…”
Tony, dietro di me, ride come un pazzo.
Ridley sorride e scuote la testa. Poi riprende, a voce più alta: “Stand-by… and… Tony please leave Elisabetta alone… and… roll!” Si gira. Cosa darei per avere la registrazione di questo inizio riprese. Ridley Scott che dice a Anthony Hopkins di lasciarmi in pace. Ragazzi, non capita mica a tutti.
Al cut, vado ai monitor a rivedere il girato accanto a Ridley. Ogni macchina da presa ha una telecamera incorporata che registra e permette di rivedere la scena appena girata ai monitor. Quello che presiede a questo compito si chiama video assistant. La scena è grottesca. Secondo me, il pubblico meno vede, più crede. Qui gli si fa vedere troppo. Penso che Ridley stia trasformando Hannibal in una black comedy, solo che nessuno se n’è ancora accorto. Altro che sequel del Silenzio degli innocenti. Questo è tutt’altro film, imparagonabile al precedente.
Rid si è allontanato a dare disposizioni per la prossima scena. Liotta è rimasto seduto sulla sedia a rotelle, e Tony, anzi Lecter, mi sta guardando. Io continuo a fissare gli schermi come se avessi notato qualcosa di fondamentale altrimenti mi fa un altro scherzo. In quello della camera A non si vede più niente, quindi mi fingo interessata a quello della camera B, che sta mostrando un pendolo in primo piano da circa due minuti.
***
“ELISABETTA!!”
Quando siamo in ufficio qui a Richmond, ogni volta che Dino mi chiama devo percorrere circa venti metri per andare da lui. Che diventano quaranta se devo tornare indietro. Che diventano mille e cinquecento se stiamo in ufficio più di mezz’ora.
“Dica dottore,” fresca come una rosa, perché è solo la decima volta che mi chiama, nel giro di un quarto d’ora, e ancora il fiato ce l’ho.
“Che numero è questo?” mi chiede allungando un foglietto con la mia calligrafia sopra. Mi avvicino per vedere meglio.
“Un nove, che altro numero può essere?”
“Ma perché lo fai al contrario?”
“Me l’ha già chiesto mille volte! Non lo so, lo faccio così, e lei lo sa benissimo! Che differenza fa se la gamba è a destra o a sinistra?”
“Non si capisce, ecco che differenza fa.”
“Ma non può essere nessun altro numero! Non è che si può confondere con il due o il quattro o che so io.”
“Vabbè, senti, un’altra cosa.” Quando ha torto cambia discorso, un classico. “Dove sono le ultime pagine di Zaillian che non le trovo?”
“Le ha lei. Saranno qui sulla sua scrivania.”
“No, non ci sono, ho guardato.”
“Guardi meglio allora.”
“Non ci sono, sono sicurissimo.”
Faccio per controllare io sulla scrivania ma lui ci stende le mani sopra per impedirmelo. “Che c'è, non ti fidi?” dice.
Sospiro. “Va beh, le cercherò nel mio ufficio.”
So benissimo che nel mio ufficio non ci sono. Non perché la mia memoria sia infallibile, ma perché non tengo niente in ufficio qui, visto che lo divido con Angela. Lascio sempre tutto in quello di Dino. Mi fermo in corridoio appena fuori dalla sua porta e aspetto che esca a prendersi il solito bicchiere d’acqua. Appena esce, mi tuffo in mezzo al casino sulla sua scrivania. Eccole lì le pagine. Quando torna mi trova con le pagine in mano.
“Ecco, hai visto che le avevi tu? Avevo ragione io.”
“Dottore, scusi se mi permetto ma su queste cose non ha mai ragione lei!”
“Come no?”
“No. Se non ci fossi io perderebbe tutto.”
“E chi ti ha trovato a te? Io, no? Ho avuto ragione.”
Lo guardo con un sorriso colmo di tenerezza e gratitudine.
“Io non so come faccio a sopportarla,” dico.
Lui ride: “Come fai, come fai… ti sei mai divertita tanto a lavorare, tu? Mi sopporti perché ti diverti!”
Dio mio, come è vero!
Venerdì ventuno luglio
Stiamo girando a casa di Krendler con Ray Liotta in tenuta da tennis e il cane. Il cane è di una bravura sorprendente. Pensate che nella scena deve camminare lungo il corridoio, fermarsi a un certo punto e girare solo la testa, lentamente, per guardare dietro. Beh, non ci crederete, ma basta dirglielo, e lui lo fa. E la cosa più incredibile è che lo fa anche se non è il suo addestratore a parlargli, ma qualcun altro. Sto parlando del cane, eh, non di Ray.
Ridley è dietro la macchina da presa.
“Okay, vai,” dice al cane, che al momento è immobile in attesa di istruzioni. L'animale si avvia per il corridoio. È un magnifico pastore tedesco, uno dei più bei cani che abbia mai visto, più bello di Rex, se mai è possibile.
“Bene, adesso fermo.” La bestiola si ferma.
“Girati ora, sì, bravissimo, lentamente… benissimo… guarda in macchina… fermo… okay, cut!” Fatto. È venuta perfetta al primo colpo. Roba da non credere.
Anche Ray fa quello che gli si dice ed è abbastanza in forma, nonostante gli eccessi di ieri sera. Era al bar dell'albergo a prendere un aperitivo con Tony Hopkins e Terry. Io passavo di lì perché stavo uscendo con Mary per andare da Mamma Zu’s, un ristorante italiano molto trendy qui a Richmond, dove si mangia da schifo ma c'è bella gente - come del resto al Tobacco Company, che però è una trappola piena di fumo. Comunque: quando sono tornata dal ristorante, tre ore dopo, Ray era ancora lì a bere, da solo, visibilmente ubriaco. Deve essersi preso qualcosa per essere così lucido stamattina.
Domenica
Oggi io e Dino siamo andati al cinema. Martha è andata al mare e lui non aveva voglia di stare solo tutto il giorno. Mi ha telefonato stamattina alle nove (stavo ancora dormendo perché ieri sera sono uscita coi ragazzi della crew e ho fatto tardi) dicendo ‘Che fai oggi? Andiamo al cinema?’
Dunque, andare al cinema con Dino significa: innanzitutto andare in un multisala, ma in America è quasi impossibile che sia diversamente, e fin qui tutto normale; farsi lasciare dall’autista a un passo dalla biglietteria, che è nella zona pedonale e quindi tutti ci guardano malissimo quando scendiamo dalla macchina, e qui comincia la parte meno normale; e fare un biglietto per un film e vedere dieci minuti di quel film, poi dieci di un altro, dieci di un altro ancora, e via fino a vedere, in due ore, tutti i film in programmazione. E questo è assolutamente folle.
Il primo film è stato What Lies Beneath di Zemeckis – Le verità nascoste -, con Harrison Ford e Michelle Pfeiffer. Le luci in sala erano già spente ma il film stava iniziando in quel momento. Io e Dino ci siamo seduti in una fila centrale vuota e io ho posato comodamente la borsa nel sedile accanto. Dopo cinque minuti Dino aveva già capito che il colpevole era il marito.
“Come fa a saperlo dottore?” ho chiesto, sussurrando, per non disturbare quelli davanti. Una signora si era già girata a guardarci malissimo. E lui, ad alta voce come se ci fossimo solo io e lui in sala: “Ti pare che Harrison Ford accetterebbe una parte secondaria in un film cretino come questo? Se ha accettato di farlo, è perché il protagonista è lui. È ovvio.”
La signora si è alzata infuriata minacciando di chiamare la maschera. Anche gli altri chissà com’erano contenti di sapere fin dall’inizio chi era l’assassino. Meno male che ce ne siamo andati subito.
Il secondo film, The Perfect Storm – La tempesta perfetta – di Walfgang Petersen, doveva essere iniziato da più di mezz’ora. Lì siamo stati seduti una ventina di minuti perché io ero tutta presa da una scena d’azione e volevo vedere almeno la fine di quella, ma lui continuava: ‘Io adesso vado. Due minuti e andiamo, eh?’ E via di questo passo. Insomma, un incubo.
Finito il tour de force, Dino è uscito dal multisala tutto soddisfatto, si è guardato intorno respirando a pieni polmoni e si è acceso un sigaro. Quando Tumy si è avvicinata sorridente - la sua nuova autista, una specie di pilota mancato di cui Dino è felicissimo e io ancora di più –, lui mi ha aperto la portiera, mi ha fatto salire in macchina, poi ha fatto il giro, è salito dalla sua parte, e ha detto a Tumy con voce autoritaria: “Let’s go!”
Tumy è partita a razzo e ci ha chiesto com’era il film.
“Quale?” ho chiesto io sarcastica. Le ho spiegato cosa significa per Dino andare al cinema.
“Mi sono divertita di più io a leggere qui fuori due ore, allora!” ha esclamato lei. È simpatica, Tumy. Sveglia, di compagnia, ma mai invadente.
“Ho capito adesso perché nessuno vuole venire al cinema con lei!” ha aggiunto rivolta a Dino, ricordandosi che nel viaggio d’andata lui si era lamentato di questo fatto.
“Vedi Tumy,” le ha spiegato Dino paziente col suo inglese inconfondibile, “oggi ho avuto la dimostrazione che anche un grande produttore come Spielberg e un grande regista come Zemeckis possono sbagliare completamente lo script e fare una grandissima stronzata come questo film con Harrison Ford. Per non parlare di The Patriot, tu l’hai visto? Non parliamone.”
Sì, ecco, meglio non parlarne.
Fine luglio
Riprese notturne. In questi giorni si gira di notte alla Berkley Plantation, una magnifica villa che si affaccia solitaria su un laghetto immersa in un esteso terreno forestale. Ci si arriva dal centro di Richmond percorrendo la Main Street East e la Route 5 East per una quarantina di chilometri. La strada per arrivarci è tra le più belle che abbia percorso finora qui negli Stati Uniti. L’asfalto è in ottime condizioni, è stretta ma poco tortuosa come alcuni tratti del circuito di Montecarlo e sale e scende leggermente, togliendo a tratti la vista di quello che segue. Non c’è illuminazione ed è poco trafficata, quindi è davvero buia, e attraversa una foresta fitta che lambisce entrambi i lati della carreggiata. Gli alberi si affacciano fino al limite della strada, delineandone i confini. Sono tronchi altissimi, quasi spogli, e molto chiari. Forse faggi, non so, sono ignorante in materia. La luce di sbieco dei fari della mia automobile li fa risaltare come spettri luminosi. È uno spettacolo surreale, meraviglioso. Sembra di essere su un altro pianeta.
A circa un’ora di strada vedo una segnalazione, un pezzo di legno a forma di freccia con inciso Berkley Plantation. La seguo, prendendo una strada sterrata in mezzo alla foresta. Finalmente arrivo a uno spiazzo dove sono parcheggiati i trailers, il catering e i furgoni degli autisti. Mio Dio, che posto. Non c’è assolutamente niente, qui.
“Come si arriva alla villa?” chiedo al primo p.a. che incontro, che si sta spruzzando lo spray antizanzare.
“Ti ci portano gli autisti. È un tratto di foresta accidentato, e per di più con parecchie deviazioni e non illuminato, quindi è facile perdersi.”
Salgo su un furgone vuoto, sedendomi davanti. L’autista parte. È veramente buio pesto. La strada sterrata neanche si vede, si sentono solo le buche e le irregolarità del terreno. I fari illuminano solo alberi, alberi, alberi, e dietro, la polvere sollevata dagli pneumatici.
“Gesù santissimo! Non ci sarei mai arrivata da sola.”
“Sì sembra impossibile, ma alla fine la strada si impara, come l’abbiamo imparata noi."
Finalmente si comincia a intravedere qualche luce, finché oltre un sipario di querce sbuchiamo in un ampio giardino curato all’inglese, con soltanto un pozzo al centro, e davanti a noi, sullo sfondo di uno specchio d’acqua nero come la pece, la villa. Non molto grande ma elegante, tutta ricoperta di assi di legno bianco. Bellissima. Non vedo nessuno però.
“Sono tutti dalla parte del lago,” mi dice l’autista come se mi avesse letto nel pensiero. “Ma io più in là di così col furgone non posso andare.”
Scendo e raggiungo a piedi la parte posteriore della villa. In effetti sull’altro lato la notte si anima; decine e decine di persone, macchine da presa, gente che va e che viene, riflettori puntati dritti sul ponticello di legno che si allunga per venti metri nel lago fino a una piccola piattaforma con un tavolo, quattro sedie imbottite e un ombrellone. È un luogo incantevole.
“Hey Elizabeth!” È Hopkins, in piedi in riva al lago con una bottiglietta di antizanzare tra le mani. Ci si sta letteralmente facendo la doccia. Ha svitato il tappo spray e si rovescia il liquido direttamente nella mano a cucchiaio per poi gettarselo addosso.
“Tony, sei pazzo? Ti fa male quella roba!”
“Meno delle zanzare,” replica lui spalmandosi bene il liquido dietro il collo. “Guarda cosa mi hanno fatto.” Mi mostra le braccia massacrate di punture. Povero. Pensare che lui dovrà stare qui a Richmond altre otto settimane perché ha le riprese di un altro film, Hearts in Atlantis, un adattamento da Stephen King diretto da Scott Hicks (quello di Shine). “Mettitelo anche tu, ti conviene,” dice indicando un sacchetto ai suoi piedi. Abbasso lo sguardo: il sacchetto è pieno di bottigliette di liquido antizanzare.
“Ti sei organizzato bene,” dico. “Comunque l’ho già messo, grazie. Mi faccio un giro, ci vediamo dopo.”
Nel tragitto verso il ponticello m’imbatto in Phil Bray, il fotografo di scena, insieme a un tizio che devo aver già visto.
“Ciao Elizabeth, come stai? Conosci Matt?”
“No.”
“Ci siamo incontrati una volta al ristorante giapponese, eri con Mary,” dice Matt con un sorriso tollerante. Ah, quello con le infradito. Oggi porta delle scarpe da tennis bianche. “E un’altra volta sul set dell’ospedale, giù all’obitorio, quando stavi cercando Ciro,” aggiunge. Questo non me lo ricordo, ma potrebbe essere vero.
“Hai ragione! Non sono per niente fisionomista, devi scusarmi. Faccio sempre delle brutte figure per questo.”
“Non c’è problema,” dice lui, imperturbato.
Dunque, il set è quello dell’esterno della casa di campagna di Krendler, quella in cui è stato servito il suo cervello per cena. In realtà l’interno è quello della casa dove eravamo qualche giorno fa, ma è questo il bello del cinema. Si mostra un’inquadratura con una magnifica villetta, stacco e inquadratura di un interno. Tutti penseranno che sia l’interno di quella casa. Magari ci si mette anche un bel personaggio che sale i gradini davanti alla porta d’ingresso, appoggia la mano sul pomello e riappare in un’anticamera. Ovvio pensare che sia l’anticamera della villetta. Eh, troppo bello per la troupe di Meet Joe Black se le scene in interni fossero state davvero realizzate in quella megavilla! E anche se la megavilla stessa fosse esistita, invece era un modellino! Va beh, stavo dicendo: qui gireremo l’epilogo del film, ovvero, in parole povere, Starling che si lascia sfuggire di nuovo Lecter.
È quasi tutto pronto per le riprese. La prima inquadratura è il pezzo di corsa di Starling da casa fino al limitare del lago, e la facciamo con la steadycam. La steadycam è una macchina a mano fissata addosso all’operatore tramite una speciale intelaiatura e munita di un braccio che la fa ruotare. Occorre molta abilità per manovrarla e anche parecchia forza fisica; una steadycam sonora – cioè insonorizzata, ovvero il fonico non sente il rumore della macchina - viene elaborata in modo speciale per permettere la presa diretta e pesa sui venti chili. Potendo l’operatore muoversi insieme al soggetto da riprendere, la steadycam permette una grande mobilità rispetto alla macchina fissa, e questo senza compromettere la stabilità e la fluidità dell’immagine come accadrebbe con la macchina a mano, dato che l’operatore non guida manualmente i movimenti di macchina ed è completamente isolato da essa mediante un sistema di ammortizzatori. Gli effetti di questo tipo di macchina, inutile dirlo, sono straordinari; c’è chi sostiene che sia la più grande invenzione cinematografica dopo il sonoro. Sento di essere abbastanza d’accordo. Con la steadycam si usa di solito la pellicola da 120 metri – in realtà 122,5 metri, ma nel gergo si usano le cifre arrotondate e non mi sembra sede qui per fare i pignoli -, la stessa che si usa in pubblicità, poiché le scene da girare non sono mai molto lunghe e anche perché pesa meno. Ma non è sempre così: in apertura di Molto rumore per nulla, Kenneth Branagh ha caricato un rullo da 300 metri e ha girato un piano sequenza con la steadycam che dura dieci minuti!! Un capolavoro. E nessuno lo sa perché la gente guarda i film ma non capisce niente di come si fanno. Io per prima, fino a poco tempo fa.
***
La cosa seccante delle riprese notturne è che Dino non va sul set perché nessuno è riuscito a togliergli la fissa che la notte si dorme. Il che implica che lui fresco fresco al mattino se ne va in ufficio come ogni altro giorno, e lì si aspetta di trovare anche la sottoscritta, che è andata a letto due ore prima. Dunque eccomi qui, presente all’appello, con un’ora di sonno alle spalle perché l’altra mi è servita per farmi una doccia e cambiarmi.
Sono talmente stanca che nel tragitto tra il mio ufficio e quello di Dino mi dimentico il motivo per cui sto andando da lui.
“Ma che c’hai oggi, sei stata tutta notte sul set, vero?” domanda il capo.
“Beh, sì, ho fatto un po’ tardi.”
“Ma che ci stai a fare? Non t’annoi tutta la notte a guardare questi che girano?”
“No. Per lei questo è il seicentesimo film, dottore, per me è il primo.”
“E c’hai ragione pure tu. Vabbè, vatti a fare un altro caffè, almeno.”
***
Giorno dopo, stessa solfa. Ho passato un’altra notte sul set e sono venuta in ufficio anche oggi, mentre tutti i ragazzi della crew dormono. Inutile dire che non sono molto lucida.
Stanotte abbiamo girato l’arrivo della polizia a casa di Krendler. Al di là del fatto che sono salita sull’elicottero della polizia che sorvola il lago nella scena finale e mi sono divertita un mondo, e che ho goduto come un topo al centro di una forma di gruviera nell’assistere alle manovre delle volanti condotte da poliziotti veri che guidavano a marcia indietro con la stessa abilità e velocità con cui andavano a marcia avanti, facendo le curve senza rallentare come se avessero un altro pilota e altri comandi sul retro dell’auto; al di là di questi divertimenti ammetto di basso livello, quello che è stato davvero emozionante è che per la prima volta nella mia vita ho camminato al buio all’aperto. Una sensazione indescrivibile, quella di muoversi nel buio, inimmaginabile se non la si è mai provata. Sembra una stupidaggine detta così, ma è davvero un’esperienza da non perdere. Quando la vista viene a mancare si perdono tutti i riferimenti a cui si è abituati, l’attenzione si sposta completamente, e l’uso dell’udito e dell’olfatto diventano come quello di muscoli mai usati, quasi doloroso.
È stato così bello che ci sto ancora fantasticando su.
…Sono al limitare del giardino, sola, accanto al sipario di querce. Guardo il buio infinito al di là di esse. Sento una voce che dice ‘Hai mai camminato in un bosco di notte?’ ‘Ovviamente no,’ rispondo. ‘Vieni con me, allora.’ Non so perché, ma vado con lui. Mi avventuro lungo la strada sterrata lasciandomi la villa alle spalle. Sparisce in un attimo, e altrettanto celermente svaniscono quei pochi riflessi di luce che ancora riuscivano a raggiungere i confini del giardino. ‘Vuoi andare avanti?’ La voce ora è più vicina. ‘Certo che voglio.’ Vedo la sagoma del mio compagno di viaggio che si muove, comincia a perdersi, i contorni a confondersi con lo sfondo nero, e d’un tratto, d’un tratto non si vede più nulla, non vedo niente, nemmeno le mie mani. Sì, voglio andare avanti. Gli occhi non mi servono più. Sento il nostro respiro, il mio e quello di lui, a volte più vicino, a volte un po’ più lontano. Cerco di seguirlo. ‘Stai vicino a me, non ti allontanare’, dice con un tono calmo. ‘Sei sicuro di riuscire a tornare indietro?’ gli chiedo a bassa voce, per non disturbare la natura, gli alberi, la foresta, i suoi abitanti. ‘Ma certo,’ risponde rassicurante. Dice che volendo potremmo arrivare allo spiazzo dove ci sono i trailers e tornare indietro. Lui l’ha già fatto ieri. Non ricordo di aver mai visto un buio così totale. Si cammina adagio, tastando il terreno, tenendo le mani sempre avanti e muovendole ogni tanto ai lati per essere certi di non urtare nulla. Si ha la netta impressione di essere in territorio altrui, ospiti non invitati di un ospite che non conosciamo. Fa un po’ paura. ‘Matt, mi dai la mano?’ ‘Allora te lo ricordi chi sono.’ Sì, ora me lo ricordo…
“Bella? Ci sei?” Dino, in piedi sulla soglia del mio ufficio. Tolgo alla mia testa l’appoggio delle mani sperando che si regga. Tiene.
“Io vado a casa a mangiare. Oggi non venire, vattene a letto a dormire che così non puoi stare.”
Lo adoro, quest’uomo. A volte penso che non me lo merito proprio, di lavorare per lui.
Stanotte faremo le ultime riprese e domani lasceremo Richmond per Charlottesville. Mi dispiace un po’ lasciare Richmond. Tutto sommato mi sono trovata bene qui. È vero che sono stata testimone oculare di una delle tante sparatorie che animano le notti della città e che per caso è avvenuta proprio sotto la mia finestra. È vero che uno della crew è stato accoltellato a due passi dall’albergo alle sette e mezzo di sera per essersi ribellato a un furfante che voleva rubargli il portafogli. È anche vero che per ottenere qualunque tipo di servizio bisogna penare parecchio, e che il Jefferson è l’hotel col peggior servizio al mondo. Nonostante tutto questo, un po’ Richmond mi mancherà.
Charlottesville
Paesello incantevole. Pittoresco. Non altrettanto si può dire dell’albergo, che però almeno ha un’ottima posizione, su Main Street. Si chiama Omni. Architettonicamente è interessante: ha un giardino d’inverno al centro su cui si affacciano sei piani di camere, tutte con una grande vetrata sul giardino.
Coda alla reception. Ci sono almeno sei persone davanti a me, e io veramente non vedo l’ora di andare in camera a farmi una doccia e poi mettermi alla ricerca di un ristorante decente.
Quando finalmente una receptionist di colore mi consegna la chiave salgo in stanza, e mi accorgo con orrore che non si affaccia sul giardino d’inverno, che è l’unica cosa carina di questo albergo. Torno giù come una furia, passo davanti a tutti e chiedo a faccetta nera di cambiarmi la camera immediatamente. Lei fa un po’ di smorfie e mi dà un’altra chiave. Salgo nella nuova stanza. La 305, per fumatori. Che si affaccia sul giardino, è vero, ma uno prima di riuscire ad arrivare alla finestra è già morto di tumore ai polmoni. Torno giù. Faccetta nera non c’è più, c’è una tizia che mangia troppo da qualche decennio che mi invita a rispettare la coda nonostante le stia spiegando che rivoglio soltanto la chiave di prima. Niente da fare.
Mi rimetto in fila, seccatissima.
“Ciao!” È Matt, l’amico di Phil, quello che mi ha fatto fare la passeggiata al buio alla Berkeley Plantation. È l’ultimo della fila prima di me, e gentilmente mi fa passare davanti. Nell’attesa, mi chiede come sto.
“Bene,” rispondo vaga. “E tu?” Lui mi pianta gli occhi addosso per un tempo che mi sembra lunghissimo. Ammazza che occhi. Ammazza che sguardo. Non ci avevo mai fatto caso. Non avevo nemmeno notato che fossero azzurri. Forse perché l’ho sempre visto con poca luce.
“Bene pure io,” dice dopo un po’, e mi chiede se voglio uscire a cena con lui e Phil.
“Volentieri,” rispondo con sincero entusiasmo. “Dove andate?”
“Non abbiamo ancora deciso, ma ci sono un sacco di posti carini. Hai preferenze?”
“Ah, tu conosci Charlottesville?”
“Sì, ci vengo spesso, ho degli amici, qui."
“C’è anche un ristorante giapponese?”
Lui ride: “Ho sentito di questa tua mania per i giapponesi! Sì, in realtà ce n’è uno ottimo. Se a Phil va bene, andiamo lì”.
Se a Phil va bene… che spiritoso.
***
Questo posto è magnifico, il pesce è favoloso, e Matt è il ragazzo più piacevole che abbia mai incontrato. Intelligente, ma non noioso, brillante, ma non prepotente, divertente, ma non villano, malizioso, ma non volgare, sicuro di sé, ma non borioso, attento, ma non appiccicoso, serio, ma non pesante, gentile, ma non servile. Gesù, potrei andare avanti in eterno. Un miracolo. Altro che pani e pesci.
Siamo seduti a questo tavolo da tre ore. Ci siamo più o meno fatti un riassunto di tutta la nostra vita, e abbiamo riso e mangiato tantissimo. Phil non è venuto. Ha detto che era stanco. Credo che non lo ringrazierò mai abbastanza.
Il locale è parecchio affollato, ma io e Matt siamo a un tavolo d’angolo, in fondo alla sala, piuttosto riparati dalla confusione. Abbiamo chiesto il conto.
“Sai cosa vorrei fare adesso?” gli domando. Matt sorride soltanto, senza dire niente e senza domandarmi cosa.
Paghiamo e ci alziamo.
“Quanto pesi?” gli chiedo mentre usciamo. Lui scoppia a ridere e scuote la testa, guardando davanti a sé. È veramente sveglio, il ragazzo. E questo nonostante sia americano. E nonostante sia giovanissimo - beh non proprio minorenne ma molto più giovane di me.
Saliamo in macchina. È quasi mezzanotte, domattina dobbiamo essere sul set alle sette, e tenendo conto che ci vuole un’oretta per arrivarci sarebbe meglio concedersi qualche ora di sonno. Ma chi ha voglia di andare a dormire adesso? Io no di sicuro. Lo guardo mentre mette in moto, resistendo alla tentazione di saltargli addosso. Potrei far finta di svenire quando scendiamo dalla macchina, così deve portarmi per forza su in camera. Ma se poi mi porta al pronto soccorso invece?
Per fortuna a lui viene un’idea migliore. Decisamente sveglio, il ragazzo.
***
Se dovessi recarmi sul set sarei arrivata, ho percorso più o meno una ventina di chilometri. Invece tiro dritta ancora per cinque o sei chilometri lungo la 15 North, per raggiungere il production office, che si trova in un hotel in mezzo al verde, un edificio modernissimo a due piani con nulla intorno, solo erba e alcune automobili annoiate parcheggiate davanti. Avremmo potuto dormire tutti qui invece che in centro a Charlottesville. La produzione deve aver avuto pietà. Arrivo sgommando e parcheggio nel lot accanto alle altre auto, salgo al secondo piano, faccio quello che devo fare e mezz’ora dopo sono di nuovo in macchina. Direzione: Montpelier, sul set dei maiali.
Che è un luogo delizioso. Ci si arriva attraversando un ponticello di legno traballante su un fiumetto vivace e in salute, e percorrendo un paio di chilometri su una via sterrata in mezzo alla campagna più campagna. A metà strada ci sono i trailer, in mezzo all’erba. In cima alla collinetta c’è una cascina, con una stalla, e dentro alla stalla c’è il set.
Raggiungo la cascina in macchina. Non c’è in giro nessuno. Il percorso è polveroso, e sollevo tanta di quella polvere che dietro di me non vedo più un accidente di niente. Poco male. Quando arrivo, parcheggio più vicino possibile all’entrata della stalla. Dietro di me ci sono un paio di p.a. appoggiati a una piccola staccionata accanto al testone finto di un cinghiale; mi fanno notare che non posso venire fin lì in macchina, e che se proprio ci vengo, devo andare più piano. Gli dico che mi dispiace tanto ma se vado più piano di così mi addormento al volante. Loro insistono che allora devo fermarmi venti metri prima.
Risalgo in macchina, accendo il motore e faccio marcia indietro piano piano, andando a sbattere di proposito alla testa di cinghiale e facendola cadere per terra. Quindi parcheggio venti metri più sotto e torno indietro a piedi.
“Mi spiace per il cinghiale,” dico passando davanti ai due p.a., che mi guardano impietriti, “ve l’avevo detto che mi addormento se vado piano.” E ridendo sotto i baffi entro nella stalla.
***
“Hai avuto tempo anche di cambiarti lo smalto?” mi chiede Matt con l’aria di uno che vuole farti notare che non hai fatto un accidente tutto il giorno. Gli do un pizzicotto, indispettita. Lui mi afferra il polso e me lo stringe con forza. Non ce la farò mai ad aspettare tutta la cena.
Saliamo in macchina e parto a razzo. Prima finiamo questa benedetta cena, prima comincia il dopocena. Matt ride tra sé scuotendo la testa.
“Guidi sempre così?”
“Non sempre. Quando occorre,” rispondo serissima.
“Guarda che possiamo anche non andarci, al ristorante. Sei tu quella che ha sempre fame, io posso anche saltare.”
Ammazza quant’è sveglio il ragazzo. Giovane, ma sveglio.
***
Sono le dieci passate e non ho ancora chiamato Gary Oldman. Devo farlo assolutamente. Mi scuso con Matt e vado a prendere il cellulare nella borsa. Chiamo in albergo, mi risponde una rimbambita (lo capisco dall’accento):
“Mr. Oldman, please.”
“Sorry?”
“I need to talk to Mr. Gary Oldman, please,” (questo secondo ‘please’ molto meno gentile del primo).
“Just a moment […] Mr. Oldman is not in, do you want to leave a message on his voice-mail?”
“Sure, thanks.” Aspetto il bip dopo la segreteria e lascio il messaggio: ‘Buonasera Mr. Oldman, sono l’assistente di Mr. De Laurentiis, domani sera 8 agosto ci sarà una cena per il compleanno di Dino e sarebbe bello che ci fosse anche lei. Mi richiami a questo numero[…]’ Gli lascio il numero del cellulare e torno da Matt, portandomi appresso il telefonino. Il quale suona ben due ore dopo. È Oldman.
“Buonasera Mr. Oldman, piacere di conoscerla.”
“Il piacere è mio. Di che cena si tratta?”
“Per il compleanno di Dino.”
“Sì ma Dino chi, scusi?” Ma come, non sa nemmeno chi è il produttore del film in cui sta recitando?
“De Laurentiis, il produttore,” rispondo gentilmente.
“Ah, si chiama così? Mi pareva di ricordare un nome diverso. E dov’è questa cena?”
“Lì in albergo, al Keswick. Ci saranno anche Ridley Scott, Anthony Hopkins…”
“Anthony Hopkins l’attore?”
“Beh… sì, certo.” Questo si fa di coca, mi sa.
“E l’altro chi è?”
“Ridley Scott, il regista.”
“Mai sentito.” Mi correggo: questo si fa di coca di sicuro.
“Ma come... è il regista del film in cui sta lavorando lei adesso.”
“Ma io non sto lavorando in nessun film, sono qui solo per il convegno.”
“Il convegno?”
“Sì, quello sui nuovi macchinari. Guardi, mi sa che c’è uno sbaglio, è sicura che vogliono proprio Gary Oldman?”
“Gary Oldman l’attore, certo. Lei non è un attore?”
“No. Io vendo macchinari industriali.”
“Ah. Ecco perché ricordava un nome diverso per il produttore.”
Insomma, è un omonimo. Non del tutto in verità, scopro poi, perché il suo cognome si scrive Ullman ma la pronuncia è praticamente identica, o quantomeno il modo in cui io pronuncio Oldman dev’essere uguale a quello in cui un madrelingua pronuncia Ullman. Questo per una persona senza un minimo d’orecchio. L’avevo detto che la receptionist che mi ha risposto era un’imbecille. E anche questo Ullman, che non sa nemmeno chi è Ridley Scott, ammazza che ignorante!
“Mi dispiace di averla disturbata,” dico.
“Dispiace anche a me non poter andare a una cena con Anthony Hopkins!” risponde lui arzillo. Ignorante ma simpatico.
“Be' ma guardi che sono tutti lì nell’albergo dove sta lei, se gira un po’ lo incontra. Anzi, scenda presto a fare colazione domattina e lo vedrà di sicuro.”
“Davvero? Mi piacerebbe chiedergli un autografo.”
“Nessun problema, anzi gli chieda una foto autografata e gli dica che gliel'ho detto io di chiedergliela, mi chiamo Elisabetta."
“Grazie infinite Elisabetta.”
“E di che? Buonanotte.”
E intanto al vero Oldman non gli ho telefonato, e ormai è mezzanotte, certo non posso chiamarlo adesso. Va beh, sarà per domattina quando lo vedo sul set. Sempre che lo riconosca, dato che l’ho sempre visto già truccato da Mason Verger.
Dieci agosto - ultimo giorno a Richmond
Sto viaggiando a tutta velocità verso Richmond, dove mi aspetta l’aereo per Asheville. Avrei dovuto essere là da stamattina, ma ho avuto un contrattempo. È successo questo: mi stavo facendo una corsetta sulla 20 North, per andare al set. Non c’era nessuno. La strada è una delle più belle del mondo, l’ho detto, ed era deserta. Insomma, non è che potevo non approfittarne.
A un certo punto mi sono accorta in effetti di una macchina che mi teneva dietro, ma non do per scontato di essere l’unica persona che sa guidare un veicolo a quattro ruote, quindi ho pensato che se la stesse spassando come me. Insomma, mi stavo proprio godendo la corsa quando a un certo punto sul tettuccio della macchina che mi seguiva è apparsa una sirena. Cazzo! La polizia. Avevo appena preso una curva velocissima in sovrasterzo, ma avevo stretto troppo verso l’interno e la macchina mi era andata via di muso perché la cazzo di parte anteriore s’era alleggerita troppo. Ovviamente avevo rimediato controsterzando, e anche decelerando un po’ perché quando ci dai troppo dentro col gas poi correggere in controsterzo è difficile. Ma quelli ormai avevano deciso di rovinarmi la giornata. Per farvela breve, mi hanno arrestata. Incredibile, eh? Mi hanno fatto lasciare la Pontiac sul ciglio della strada, mi hanno messo le manette e mi hanno spinta sulla volante, sui sedili posteriori, con la grata in mezzo. Come nei film! Me la stavo facendo sotto. Questo è quello che è seguito: mi hanno portata dal ‘magistrate’, che non c’era e ci ha fatto aspettare mezz’ora. Quando si è degnato di arrivare e l’ho visto non ci potevo credere: era un nero che a stento avresti detto fosse maggiorenne, stronzo come pochi, con anelli d’oro e smeraldi alle dita. Un cafone mai visto. Non mi ha manco guardata in faccia, ha solo detto che dovevo andare ‘to court’ al 22 agosto, e che adesso mi avrebbero rilasciata solo se avessi pagato la cauzione. Altrimenti, gattabuia. Per fortuna, dopo una mia reazione melodrammatica su cui preferisco sorvolare, uno dei due poliziotti che mi avevano arrestata e che non smetteva più di guardarmi le tette, mi ha aiutata a far sentire le mie ragioni – ero straniera, stavo lavorando a un film, mi aspettava un aereo per andare in un altro stato, la macchina era intestata alla produzione eccetera - e a ottenere di andare a processo oggi in mattinata. Dopo una breve attesa mi hanno condotta in un’aula uguale a quelle dei film americani con un giudice anche lui identico a quello dei film americani (aria bonaria e severa nello stesso tempo, aspetto da uomo giusto, anzianotto e di pelle bianca). Lì gli agenti hanno fatto il loro giuramento e hanno raccontato quello che avevo combinato senza un minimo di tatto, i fatti nudi e crudi, che a sentirli da loro sembrava anche a me che stessero parlando di un pirata della strada. Quando hanno finito, ‘Your Honour’ mi ha chiesto se avevo un avvocato e ho detto di no, me lo ha richiesto e ho ripetuto di no, poi mi ha chiesto come mi dichiaravo e io ho ammesso ‘colpevole’ e tutti mi hanno guardata male allora ho dubitato di aver detto la cosa giusta ma ormai l’avevo detta e ho ripetuto ‘colpevole’ ma ho aggiunto ‘però non c’era in giro nessuno’, con le lacrime agli occhi. Loro mi hanno comunicato che mi condannavano al pagamento di una multa di 80 dollari per ‘reckless driving’, somma che ho accettato di pagare in cambio della mia libertà.
Tutta quella sceneggiata per 80 dollari!
Mi hanno fatto venire un colpo, pensavo di essere spacciata, già mi vedevo in galera, e sono libera con 80 dollari! Gli americani sono proprio bravi a fare di niente uno spettacolo. Durante l’interrogatorio al banco dei testimoni, al microfono, ho tenuto a precisare che il primo semaforo che avevo attraversato era rosso, ma il secondo era ancora giallo quando sono passata io, è stata la volante dietro di me a passare col rosso per inseguirmi, quindi per quanto riguardava i semafori ero colpevole di averne passato uno rosso e uno giallo, non due rossi. In aula hanno riso tutti. Ma il giudice non si è ammorbidito per niente e anzi ha rincarato la dose dicendo che sono un pericolo per me stessa e per gli altri perché neppure avevo visto il camion che veniva nel senso opposto e dato che la strada era troppo stretta, ho pure rischiato un frontale. ‘Ma certo che l’ho visto!’ ho protestato. E che cavolo, sarò un pirata della strada, ma mica sono cieca! ‘L’ha visto?’ ha domandato lui incredulo, ‘ma allora perché è passata lo stesso?’ ‘I’m Italian,’ ho risposto, ‘we’re good drivers’.
***
L'aereo per Asheville. È un charter affittato da noi, e ha dovuto aspettarmi. Dico addio alla Pontiac e salgo a bordo tutta affannata, accolta dall'applauso sarcastico di tutte le persone a bordo.
“Scusatemi,” dico vergognandomi un po', e mi siedo sola in una fila da quattro. Meno male che Dino non c'è. Lui, Ridley e Tony sono partiti con un aereo privato.
Di fianco a me, una fila più indietro, c'è Matt, seduto accanto a Ciro. Mi chiama e mi saluta.
“Tutto bene?” La mia espressione è un invito. Viene a sedersi un attimo vicino a me.
“Cos'hai combinato?”
“Mi hanno arrestata.” Lui ride. “Mi hanno anche fatto il processo.” Ride ancora di più. Gli do un pizzicotto forte sulla coscia, con le unghie. Lui non fa una piega.
“Fammi vedere il mandato d'arresto,” mi sfida. Lo tiro fuori dalla borsa, glielo mostro.
“Holy SHIT!” esclama.
“Già...” mormoro girandomi verso l'oblò.
Matt mi sposta i capelli dall'orecchio e avvicinando il viso al mio sussurra: “Scommetto che ti sei divertita”.
Un'oretta dopo siamo in arrivo. Matt è tornato a sedersi con Ciro. Quando la città comincia a vedersi sotto di noi, mi affaccio all'oblò a guardare giù. Ciro dice a voce alta: “Elisabetta sta cominciando a cercare un ristorante giapponese!” Qualcuno ride. Io mi giro e gli lancio il cuscinetto.
Asheville
L’albergo dove stiamo è a un passo dal centro. Si può andare a piedi dappertutto, anche sul set, che in questi primi giorni è in un appartamento privato messo a disposizione da un giovane milionario che voleva togliersi lo sfizio di vedere la sua casa in un film. L’ufficio di produzione invece è a circa cinque chilometri dall’albergo, vicino al prossimo set, dove ci fermeremo più a lungo, e vicino al ristorante giapponese coi cuochi giocolieri. Che altro vi devo dire? Non ho più la mia Pontiac, la macchina che mi ha fatto compagnia per due mesi. Una vera tragedia. Mi sono fatta dare un’altra Pontiac dello stesso colore e della stessa cilindrata, ma non è uguale. A questa mancano i comandi stereo al volante. Se devo cambiare canzone mi tocca allungare il braccio fino alla plancia centrale. Pazzesco.
Una settimana dopo
“Ci troviamo nella hall tra dieci minuti,” dice la voce, e riattacca. Sarà Charlie.
Quando scendo, al bar della hall ci sono almeno trenta persone, di cui almeno la metà fanno parte della nostra troupe. Mi guardo in giro sperando che qualcuno si avvicini. Tutti mi salutano, compreso Charlie, ma nessuno mi parla come se mi stesse aspettando. Mi avvio verso il parcheggio e a quel punto qualcuno mi affianca. Mi giro e mi fermo, incrociando le braccia.
“Beh? Hai un’amante che non ci deve vedere insieme? E che fine hai fatto, sono giorni che non ti vedo!” protesto.
“Ssssst… easy, easy,” mi interrompe lui con quel suo tono rilassante. Una delle cose che più adoro di Matt è che ha un ottimo controllo della voce. Parla sempre a voce bassa, ma non come Hopkins, che lo fa per insicurezza o peggio per presunzione. Lui parla come uno che è in pace col mondo. Però adesso non mi frega con questa storia della voce calma. Non mi lascio incantare. Sono arrabbiata.
“Allora? Che fine hai fatto?” insisto.
“Sono dovuto tornare qualche giorno a San Francisco.”
“E perché non me l’hai detto?”
“È stata una cosa improvvisa, saliamo in macchina che ti spiego.”
“No, mi spieghi adesso.”
Lui fa quel suo sorriso paziente che gli ho visto fare spesso, con me. Lo guardo dall’alto in basso. Maglietta bianca, jeans, Timberland. Poi dal basso in alto. Timberland, jeans, maglietta bianca. Poi dall’alto in basso--
“Hallo? Ci sei? Mi ascolti?” dice lui.
Ero arrivata ai jeans. Distolgo lo sguardo – a fatica – e rispondo: “Sì, ti ascolto.”
“Saliamo in macchina, dai,” dice.
Sveglio, il ragazzo. Proprio sveglio. Io ho un debole per i ragazzi svegli.
***
Ci si arriva da un ampio viale d’ingresso, in paese, a pochi passi da Reed Street e dall’ufficio di produzione. In fondo al viale c’è un cancello con le guardie che controllano il biglietto (noi di Hannibal abbiamo il solito badge di riconoscimento), una volta passato il quale si seguono le indicazioni per la villa, che dista dal cancello una ventina di meravigliosi chilometri lungo una strada in mezzo al verde che sembra di stare sulle Dolomiti. Avete presente la strada per andare a San Martino di Castrozza? Uguale.
Noi giriamo in due saloni al piano terra che si affacciano su un grande terrazzo panoramico, nell’ala sinistra della costruzione. All’ingresso di una delle sale c’è un portico dove abbiamo sistemato tutte le attrezzature, coprendo lo spazio con dei tendoni per evitare gli sguardi dei curiosi. Per gli attori che giungono sul set è stata creata una passerella ricoperta come quelle sotto cui passano i calciatori, che li conduce non visti dal punto del parcheggio in cui gli autisti sono costretti a fermarsi fino al portico. All’inizio di questa passerella c’è il nostro camioncino con stuzzichini e beveraggi. I trailer sono a un paio di chilometri da lì, in un punto del parco in cui c’è un grande parking lot asfaltato. A duecento metri circa, in uno spiazzo circolare in mezzo alle piante, ci abbiamo piazzato il tendone del catering.
I turisti sono ammessi alla Biltmore tutti i giorni fino alle quattro. Dopo quell’ora si sta molto meglio. Io, specialmente, sto molto meglio, perché la proprietà si svuota del tutto e nel parco non c’è in giro un’anima, giusto le guardie giù all’ingresso. Il che mi permette di farmi delle belle corse lungo le stradine che attraversano il parco, curve dolci, curve a gomito, curve cieche, salite, discese, uno spasso indescrivibile. E nessuno può dirmi niente, innanzitutto perché nessuno mi vede, e poi perché questa è una proprietà privata. Nemmeno la paura di essere fermata dalla polizia per reckless driving. Nemmeno la paura di incontrare qualcuno dietro la curva. Solo ieri sera, in un tratto boschivo, mi ha attraversato la strada un cervo e per poco non lo investivo. In quel punto d’ora in poi ho deciso di andare piano.
***
Davanti a noi, il letto a baldacchino in cui è coricato Verger, e Starling che si prepara a intervistarlo. È una scena clou. È qui che lei lo vede per la prima volta. Cordell la accompagna accanto al letto e tira la cortina del baldacchino, Starling non fa una piega nel vedere il volto sfigurato del suo ospite, gli appunta il microfono al pigiama e accende il registratore. Questo è il lavoro di oggi. Silenzio di tomba.
“…and… action.”
Gli attori cominciano a recitare la loro parte. Il suono delle loro voci è molto pulito, per fortuna. Ieri Ridley ha perso un sacco di tempo per colpa del vociare delle orde turistiche che disturbavano la registrazione audio. Ha dovuto far ripetere il dialogo più volte e per non andare over-schedule è rimasto a girare fino a notte inoltrata. I tecnici sono tutti concentratissimi. Per non parlare di Ridley, che indossa la sua tipica espressione, non quella preoccupata, l’altra. Tutto procede per il meglio, quando a un certo punto suona un cellulare, che ovviamente interrompe la scena. Né io né Dino né Ridley capiamo da dove venga, perché le cuffie ci restituiscono i rumori della sala così come vengono registrati. Purtroppo, mi accorgo con orrore che sia Julianne Moore sia i ragazzi della crew guardano tutti verso la macchina da presa, dove in questo momento siamo in tre: Ridley non può essere; Dino neppure perché il suo cellulare ce l’ho io; quindi sono io. Merda. Mi tolgo le cuffie. Il cellulare mi reclama dallo zainetto, ma non è il mio, è quello di Dino. Lo tiro fuori e lo spengo. Mi stanno guardando tutti. L’aria è così pesante che si taglia col coltello. Ridley si toglie le cuffie e si gira a 180 gradi verso di me. Oddio. Adesso mi dirà di non farmi più vedere sul set. Gli chiedo scusa a mani giunte ma lui mi fa un sorriso, poi torna a guardare avanti e fa segno di ripetere la scena. Deve essere per la frase in latino. Tempo fa doveva fare un regalo a Dino ma non gli veniva in mente niente e ha chiesto a me. Gli ho dato varie idee una peggio dell’altra, perché davvero, cosa gli si può regalare, a Dino? Alla fine gli ha preso un portasigari in argento, ma glielo voleva far incidere per personalizzarlo e di nuovo ha chiesto a me se mi veniva in mente una bella frase da scrivere. Mi è venuta subito: ad maiora cotidie. Gli ho spiegato il significato e lui è stato entusiasta, anche perché con una frase in latino avrebbe fatto un figurone. Mi ha raccomandato di non dire a Dino che l’ho aiutato e ovviamente non glielo dirò. Non farei mai un torto a Ridley, anche perché è vero che tratta sempre tutti molto bene, ma a me mi tratta meglio e credo che sia per quella frase che gli ho suggerito.
Ma torniamo sul set. A ripresa ricominciata, con le camere che girano e il silenzio assoluto, Dino si china verso di me e sussurra: “Era il mio telefono quello?”
“Sì dottore, accidenti! Silenzio, adesso!” rispondo muovendo solo le labbra.
“Guarda chi era.”
“Non posso, sta scherzando?” sussurro.
“EH?”
Mi avvicino al suo orecchio: “Non posso far rumore.”
“Ma non devi fare rumore, devi solo vedere chi era, poi richiamiamo dopo,” dice lui sempre a bassa voce.
“Ma devo tirarlo fuori dallo zainetto, si sente!” gli sussurro sempre all’orecchio.
“Ma no che non si sente! Dammelo a me che lo tiro fuori io.”
“È inutile, tanto il telefono è spento."
"E lo riaccendiamo. Faccio pianissimo."
"Lei non ci sente, non si rende conto di fare rumore." Lui fa per chinarsi a prenderlo da solo e gli allontano lo zaino per non farcelo arrivare. In quel momento, mi accorgo che ci stanno guardando tutti.
Gli tiro fuori il suo benedetto cellulare, imbarazzata. Dino guarda chi è, poi guarda me. “È Trento, il mio cardiologo,” sussurra.
“E cosa vuole?”
“Eh, non lo so, adesso glielo chiediamo,” risponde lui come se fossimo al bar.
Alziamo lo sguardo, sia io che Dino. Ridley sta aspettando a braccia conserte che terminiamo la conversazione. Spero che almeno i primi secondi della scena riesca a salvarli.
“Ridley devo fare una chiamata urgente. Andiamo Elisabetta,” dice Dino, avviandosi verso l'uscita.
Non ho capito perché devo uscire anch’io, ma ho come l’impressione, quando ce ne andiamo, che siano tutti sollevati.
***
“Te lo dico io.”
“Ah, l’ha segnato lei? Che bravo.” Dino mi stupisce sempre. Ieri mentre parlava con Carlei ha messo il telefono in viva voce per farmi annotare il suo numero mentre glielo dettava, ma io avevo lasciato il cellulare in macchina e non avevo da scrivere. Dove se l'è segnato, lui?
“No, e dove me lo segnavo? Ma me lo ricordo.”
Lo guardo e sorrido, intenerita. “Dottore, non può ricordarsi un numero che ha sentito una volta ieri. Ce l’ha sul cellulare? Lo richiamiamo al numero da cui ha chiamato lui ieri?
“No, quello era il fisso, ci ha dato il cellulare perché ha detto che oggi stava in giro. Prendi il telefono e fai 'sto numero, dai.”
“Ma se ce l’ha sul cellulare usiamo il suo, no?”
“Non ce l’ho sul telefono, ti sto dicendo! Sei una capa tosta, sei!”
Tiro un respiro molto profondo per infondermi tanta pazienza e tiro fuori il mio cellulare dallo zainetto. “Ecco. Avanti, sentiamo questo numero,” dico, scettica. Lui mi dice le cifre una per una, con attenzione. Le scrivo dopo il prefisso dell’Italia e invio la chiamata. Mi risponderà il canile di Caltagirone, o il parroco di Montichiari.
“Sì, pronto?” risponde Carlei.
“Carlo?” Sono sbalordita.
“Elisabetta, ciao. Sì, sono io. Tutto bene?”
“Sì, grazie. Scusa, non ero sicura di aver fatto il numero giusto. Ti passo Dino.”
Dino mi prende il telefono di mano e comincia la sua conversazione con Carlei. Io lo guardo come si guarda un alieno, perché Dino è un alieno.
***
Sera, in albergo. Sono nella hall a giocare a memory con Matt, e intanto chiacchieriamo, così lui si distrae e vinco io. Gli altri tavoli sono più o meno tutti occupati dai membri della crew che fanno chiasso e bevono birra.
“Capricciosa io? Ci vuole del coraggio!” esclamo scandalizzata. Stiamo parlando dei miei difetti, e non sono assolutamente d’accordo con quelli che mi ha trovato. Oltre a essere capricciosa, questi sono gli altri miei difetti, secondo lui: 1) Tratto male i camerieri. Falso. 2) Mangio praticamente solo sushi. Un po’ vero. 3) Non parlo mai di cose serie. Falso. Gli ho praticamente fatto una lezione su Roger Deakins, l’altro giorno.
“No, no, lo sei,” insiste lui.
“Vinto!” esclamo trionfante.
“Ti ho lasciato vincere,” commenta lui guardando l’orologio. “Hai visto che ore sono? Io domattina devo essere sul set alle sei.”
“Uffa come sei noioso. Posso venire in camera tua?”
“No.”
“Eddai…”
“Elizabeth… sono tre notti che non dormiamo.”
“Ma io dico a dormire!”
Lui ride.
“Facciamo a chi arriva prima alla porta, allora,” propongo. “Se arrivo prima io, resto da te. Se arrivi prima tu, vado a dormire in camera mia.”
Lui fa cadere le braccia in segno di resa. “Okay ma senza barare. Ognuno passa da dove gli pare, e si parte dalla reception.”
“Deal.”
Ci alziamo, lui mette via le tessere del memory nella scatola e andiamo alla reception. Appoggiamo entrambi una mano sul banco per essere certi di partire nello stesso momento.
“Pronti?”
“Via!”
Scattiamo come due fulmini. Io passo dalle scale di servizio sul lato ovest, la sua camera è al quinto piano ma se aspetto l’ascensore rischio di metterci molto più tempo. Lui non so che giro fa. Quando arrivo al corridoio ho il cuore che mi esce dalle orecchie. Si dice così? Boh. Lui non si vede. Ultimo scatto fino alla sua porta. Sono arrivata prima io!
Mi appoggio al battente a riprendere fiato e lo aspetto. In quella, la porta si apre e quasi faccio un volo all’indietro. Mi ritrovo tra le sue braccia.
“Come diavolo…?”
“Io ho preso l’ascensore,” dice lui con la solita flemma. In camera c’è addirittura già accesa la musica.
La mia faccia deve essere un libro aperto. Avevo proprio voglia di stare qui stasera. Ce l’avevo anche ieri, è vero, e anche l’altro ieri. Quindi mi rendo conto che dovrei lasciarlo dormire.
Gli butto le braccia al collo e lo bacio. Mi tocca provarle tutte. Mentre ci baciamo, lui chiude la porta.
Vinto anche questa.
***
“Ehi ciao bella, sei qui finalmente,” dice lui.
“Perché, aveva bisogno di me?”
“No, no, sono appena arrivato anch’io. Ma sono preoccupato.”
“Che c’è?” domando, istantaneamente più preoccupata di lui. Non risponde. ”Dottore?”
“Sono vivo, sono vivo.”
“Mi parli, allora.”
“Devo dargli cinque settimane, a Ridley, per il director’s cut.”
“Invece di dieci?”
“Eh.” Il suo modo di dire ‘sì, purtroppo’, alla napoletana.
Il director’s cut è l’okay del regista al film montato. Il final cut è l’okay finale pre-distribuzione, che Dino tiene quasi sempre per sé, cedendolo solo a quelli che ritiene registi formidabili. Ma non lo dava neanche a Fellini, per farvi capire.
“E va beh, dai, non mi pare un dramma. Cinque settimane non sono mica poche.”
“Lo pensi anche tu, no?”
“Ma sì, certo. E poi Scalia è un genio, non credo che Ridley troverà molto da modificare.”
“S’incazzerà secondo te?”
Non gli conviene, se non vuole che dica a Dino che la frase sul portasigari (e pure il portasigari) gliel’ho suggerita io. “Ma no, doc, secondo me no.”
“Speriamo che tu abbia ragione. Che dici, mi togli quest’affare che mi dà fastidio?”
L’affare è un pelo bianco delle sopracciglia lungo tre centimetri che spunta dritto sulla sua fronte come un’antenna. Dino ne aveva parecchi di questi peli prima, e sono stata io a iniziarlo alla sana abitudine di toglierli. Ovviamente non può farlo da solo. Glielo faccio io. La prima volta è stato un delirio. Eravamo a Los Angeles, e non ne voleva sapere di lasciarseli strappare. “Ma che sei matta? Vattene con quelle pinzette!” urlava scappando per l’ufficio.
“Dottore, deve fidarsi di me,” gli ho detto quella volta. Si è fidato. E da allora se li fa strappare solo da me. Un po’ male fa, specie la prima volta, ma il segreto è eliminarli subito, appena nascono.
“Eh ma dottore, non ho qui la pinzetta.”
“Ce l’ho io, tieni.” Me la allunga. La prendo, poso la borsa sulla poltrona e mi avvicino alla sua sedia.
“Dove l’ha trovata? Ci si può fidare?” dico osservando il piccolo utensile.
“Sì sì l’ho portata da casa.”
“Ah, okay. Allora stia fermo un secondo.”
Il tempo di dirglielo e ho già fatto. In quel momento entra Scalia con dei documenti; mi vede accanto al capo con una mano sulla sua fronte e l’altra che stringe una pinzetta e s’irrigidisce.
“Am I interrupting something?” (Ho interrotto qualcosa?)
“No, no, vieni,” rispondo ridendo.
“Stavi cercando di ucciderlo?”
“No. E come farei poi senza di lui?”
“Ah peccato, sennò ti davo una mano,” scherza Pietro.
“Eh eh eh, tutti mi vogliono bene, vedi Elisabettina mia?” dice Dino, ridendo sotto i baffi come gatto Silvestro.
***
COMPANY WRAPPED SEVEN TWELVE!
Un’altra giornata finita. Domani non si lavora e tutta la crew ne approfitterà per fare un massaggio a spese di Julienne Moore; glielo ha regalato lei. Non è un pensiero adorabile? Anch’io nel mio piccolo ho avuto un pensiero per la crew, per uno solo di loro, a dire il vero, ma insomma, ognuno secondo le sue possibilità. Ho invitato Matt in camera mia a vedere un film. E il film lo pago io. A me sembra un’idea carina anche la mia. Il film in questione è Il dottor Stranamore di Kubrick, un capolavoro assoluto che lui, incredibilmente, non ha mai visto. Appena l’ho scoperto mi sono attivata per rimediare. Non posso pensare di uscire con uno che non ha visto nemmeno i fondamentali del cinema.
Quando ero più giovane ero fissata coi test di intelligenza. Tutti quelli che volevano uscire con me dovevano prima passare questi test, e raggiungere un punteggio minimo di 140 nelle prove miste, il che spiega che se ho sempre fatto poco sesso nella mia vita non è stato solo per scelta mia.
***
“Ci hai pensato che fra qualche giorno io e te non ci vedremo più?” mi chiede Matt proprio quando il presidente russo comincia a spiegare il ‘disguido’ al suo interlocutore.
“Perché?”
“Come perché?” dice lui tenendo lo sguardo fisso sul film. “Perché le riprese saranno finite. Tu torni a Los Angeles.”
No, non ci avevo pensato. Ci penso adesso. Mi giro e lo guardo. Lui continua a guardare lo schermo, però.
“Non siamo mica così lontani. Ci sono già venuta due volte in macchina a San Francisco,” sdrammatizzo.
“Ma io non sarò a San Francisco. Io ho un altro film dopo di questo.”
“È vero, quello di Ron Howard. Dove girate?”
“In New Jersey. Ma se anche girassimo a Bakersfield, hai visto com’è quando si lavora sul set. Non riesci ad avere una vita al di fuori.”
Dio, che seccatura! Mi tocca rimettere la scena della telefonata da capo perché scommetto che non ha sentito neanche una parola. Vado indietro col rewind. Ma lui invece di guardare lo schermo ha la testa appoggiata al muro e gli occhi chiusi.
“Matt? Eddai…” Gli faccio un po’ di solletico, ma lui mi tira via la mano perché non ha voglia di scherzare. Allora prendo un cuscino e glielo tiro fortissimo sulla faccia. Lui spalanca gli occhi, mi guarda.
“Ah sì eh?”
Prende un altro cuscino e me lo tira. Iniziamo una battaglia all’ultimo sangue, su e giù dal letto, dai divani e dalle poltrone. A un certo punto mi fermo: “Alt, time out, devo riprendere fiato,” e poso il mio cuscino. Lui posa il suo, mi agguanta, mi butta sul letto e mi sfinisce di solletico finché ho le lacrime agli occhi dal ridere. Quando proprio non ce la faccio più smette e mi abbraccia, stringendomi forte. Ma le lacrime continuano a scendere, inarrestabili.
Los Angeles - Un mese dopo
Mentre il development e la fase di produzione di un film sono una figata galattica, la post-produzione è davvero un incubo. Da quando siamo rientrati non faccio che lavorare, non esco praticamente mai e ho persino smesso di scrivere regolarmente il mio journal perché mi manca il tempo di farlo.
A dire il vero, non esco anche perché sono triste. Io e Matt non ci siamo nemmeno salutati. Ci siamo detti ‘ci vediamo sul set domani e ci salutiamo’ e lui non è venuto. Quando Ridley mi ha detto che non c’era sono scoppiata a piangere.
“Elizabeth, are you okay? Matthew wasn’t supposed to be here today, we’re not shooting, are we? We’re just setting the stage.” [Elisabetta, tutto bene? Matt non doveva venire oggi, non dobbiamo girare. Stiamo solo preparando il set per la scena.]
Ho pianto così tanto che non avrò più lacrime da versare, da qui a un bel po’ di anni.
[clicca su 'post più vecchio' per continuare la lettura]